Di seguito l'omelia di monsignor Gualtiero Sigismondi, vescovo della Diocesi di Orvieto-Todi, in occasione della Domenica di Pasqua:
L’ombra della Croce non regge ai raggi del sole di Pasqua; la notte del Venerdì Santo non resiste al grande silenzio del Sabato Santo; le tenebre del peccato e della morte non fermano l’inondazione di luce che fa risplendere la vita. Cristo Signore, con la sua Risurrezione, “ha imposto alla morte un limite invalicabile”: è sceso a scuotere gli inferi, abbattendone le porte e le sbarre con le “armi vittoriose della croce”, per cercare Adamo, liberarlo dalla prigionia del peccato e restituirgli “il primo soffio vitale”.
La metafora della “porta”, segno giubilare dalla grande forza simbolica, con cui la lex credendi indica il Battesimo, “porta della nostra salvezza”, accompagna i racconti pasquali, che conducono, anzitutto, all’ingresso del sepolcro, sigillato da una grande pietra che le donne, di buon mattino, trovano rimossa (cf. Lc 24,2). Ci sono, poi, le “porte chiuse” del luogo ove gli apostoli si sono rifugiati per timore dei Giudei (cf. Gv 20,19.26); il Risorto le oltrepassa, senza aprirle, provocando in loro un prodigioso duello fra dubbio e gioia grande. C’è pure la porta della locanda di Emmaus di cui il Signore varca la soglia la sera di Pasqua, dopo aver scortato, fino al loro villaggio, due discepoli desolati, che lo invitano a fermarsi: “Resta con noi, perché si fa sera” (Lc 24,29).
Fratelli e sorelle carissimi, avviciniamoci a queste porte, a quella più vicina alla propria condizione esistenziale e tendiamo l’orecchio oltre la soglia, spingendo lo sguardo al di là di essa.
– C’è senz’altro, fra di noi, chi si pone al seguito delle donne, guidate da Maria di Magdala, i cui passi veloci precedono e svegliano l’aurora del giorno di Pasqua. Giunte al sepolcro, trovandolo aperto e vuoto, il dolore aumenta, non potendo piangere nemmeno sul corpo di Gesù (cf. Lc 24,1-3). Le loro lacrime sanno di sale, come quelle di chi percorre i vialetti dei cimiteri, in ricordo di qualche persona cara; gli occhi sono umidi o, addirittura, grondanti, se “scavati dal male più grande che esista: sopravvivere ai propri figli”.
– C’è pure, in mezzo a noi, chi insegue gli apostoli fino alle porte del luogo ove si sono asserragliati, stretti tra l’incudine della paura e il martello dell’amarezza (cf. Gv20,19). Il loro imbarazzo è simile a quello di quanti, di fronte all’enigma della morte, che è una “livella” e al tempo stesso una “pialla”, non riescono ad averne una visione serena, come Francesco d’Assisi, il quale la chiama “sorella”,“da la quale nullu homo vivente pò scappare”, inserendo nella melodia del Cantico di Frate Solel’armonia del Preconio pasquale.
– C’è inoltre, in questa assemblea, chi si accoda ai discepoli di Emmaus, “vagabondi disperati” piuttosto che “pellegrini di speranza”. Essi, sfiduciati, non riconoscono il volto del Signore e nemmeno la sua voce; sono solleciti, però, a offrirgli ospitalità, che li disporrà ad aprire gli occhi alla “frazione del Pane” (cf. Lc 24,30-31). Lo “stato vegetativo” della loro speranza è paragonabile a coloro i cui occhi “sono stanchi di guardare in alto” (cf. Is 38,14); accecati dalla delusione lasciano campo libero alla rassegnazione.
Fratelli e sorelle carissimi, la fede della Chiesa – professata 1700 anni fa a Nicea, in occasione del primo Concilio ecumenico, svoltosi nel 325 – insegna che la Risurrezione di Gesù testimonia sia la sua piena divinità, “che sola è capace di attraversare e di vincere la morte”, sia la sua umanità, perché Egli risorge nel suo vero corpo nato da Maria. Il Simbolo di Nicea sottolinea che la Pasqua di Cristo si dispiega fino alla fine dei tempi; la vittoria sul peccato e sulla morte è definitivamente acquisita, ma dovrà realizzarsi pienamente nella Parusia, quando il Signore “ritornerà nella gloria per giudicare i vivi e i morti”.
“Né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura – assicura l’apostolo Paolo – potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm 8,38-39). Il suo fianco, colpito sulla croce con una lancia da uno dei soldati (cf. Gv 19,33-34), è la “porta santa” del cielo, che il giorno di Pasqua si è aperta, anzi, spalancata per sempre: in uscita e in entrata. In uscita, sul versante del tempo: da essa “sgorgano sangue e acqua”. In entrata, nell’orizzonte infinito dell’eternità: la sua soglia è il traguardo del nostro cammino di “pellegrini di speranza”, lungo la strada che dal fonte battesimale conduce alla “nuova Gerusalemme”.