C’è un vento che ci attraversa, sottile ma insistente. Non ha odore né contorni, ma lascia una scia collosa sulla pelle, come fanno le parole non dette. È il vento della minaccia, o meglio, della sua percezione: una paura che non si riesce a declarare, che abita le viscere più che la mente, e ci segue anche quando crediamo di averla scacciata. Una tensione diffusa, tangibile, che serpeggia dentro le comunità come un sussurro cupo, come un brusio che ci sveglia nella notte, e ci accompagna silenzioso anche di giorno, mentre attraversiamo le piazze, le strade, i bar, i mercati.
Viviamo il tempo della paura senza ideologia, del sospetto rancoroso che precede ogni forma di ragione. È un tempo in cui la chiusura non nasce da idee, ma da scatti pavloviani dell’anima impaurita. Dispositivi antichi, arcaici, pre-morali: il branco, la stirpe. Il bisogno urgente di un’appartenenza minima, a cui aggrapparsi per non annegare nella precarietà. Non ci sono più grandi narrazioni: solo un timore collettivo che si è fatto congegno mentale, agito silenzioso che governa i gesti e le percezioni.
In Metamorfosi della paura (Il Mulino, 1997), Roberto Escobar coglieva con lucidità la mutazione in corso. La paura, scriveva, «non è più solo il presentimento di un danno, ma la percezione dell’intrusione, dell’assedio, del caos che penetra». È un’insicurezza che ha smesso di cercare spiegazioni e si è arroccata nella sensazione. Non è più ciò che temiamo che ci accada, ma ciò che avvertiamo di essere diventati: fragili, esposti, senza più ripari, in un tempo che ha smarrito la bussola del senso.
Ed è allora che l’altro — chi arriva da fuori, chi parla un’altra lingua, chi porta sul volto una geografia diversa — si trasforma in simbolo, in spettro, in minaccia. L’immigrato diventa il bersaglio visibile di una paura incorporea, profondamente incistata negli anfratti più bui di noi stessi. Una figura su cui proiettiamo tutto ciò che ci disturba e che non sappiamo nominare. La fatica quotidiana, l’incertezza del futuro, la perdita di senso: tutto si proietta in una figura simbolica da respingere.
Costruiamo barriere, tracciamo confini, innalziamo muri. Ma non solo muri materiali: anche muri simbolici, linguistici, rituali. Difese identitarie che servono a dare corpo alla minaccia, a contenerla, a darle un nome. Così, il “noi” si fa sempre più piccolo, più cieco, più rigido. E lo straniero diventa lo “straniero interno”, quello che è dentro ma non vogliamo riconoscere come parte, che viviamo come minaccia strutturale alla nostra sicurezza e al nostro ordine presimbolico.
In questo clima, i media svolgono un ruolo decisivo. L’informazione, più che interpretare, mistifica. Più che comprendere, separa. Ogni gesto — un piccolo furto, un litigio, un’ombra sotto un portico — viene iscritto nel vocabolario dell’allarme, vergato in prosa cinica. La realtà viene decodificata con una grammatica di emergenza permanente. Così si attiva l’antico apparato del capro espiatorio, ben descritto da René Girard: un sacrificio simbolico che placa le tensioni collettive, offrendo un nemico da immolare per ritrovare un precario ordine sociale.
Ma la domanda brucia ancora tra le righe: È davvero l’altro a minacciarci? O forse, nello straniero che temiamo, vediamo la proiezione dei nostri desideri inconfessati? In lui — giovane, instancabile, radicalmente vivo — vediamo ciò che non abbiamo il coraggio di desiderare, o che temiamo di non riuscire mai a raggiungere. In lui si riflette la libertà che ci spaventa, la fame che ci inquieta, la vitalità che abbiamo anestetizzato.
Non bastano più le parole di circostanza, né le retoriche inclusive di superficie. Servono operazioni politiche radicali, culturali prima ancora che legislative, capaci di dare senso alla convivenza. Di costruire immaginari condivisi. Serve una nuova postura dell’incontro. Luoghi dove l’altro non sia più tollerato, ma riconosciuto come parte creativa del tessuto condiviso, dove la relazione non si esaurisca nella gestione emergenziale, ma si apra alla produzione di immaginari. Dove l’immigrato smetta di essere “problema” e diventi interlocutore, coabitante, soggetto del presente e del futuro.
E potremmo partire proprio da qui, da interrogativi concreti, piccoli, ma decisivi. Dove sono gli immigrati, nelle nostre comunità, collocati fisicamente, urbanisticamente, simbolicamente? In quali condizioni vivono? Quali luoghi vivono — e soprattutto, quali restano loro interdetti?
A volte basterebbe mappare la città con uno sguardo coraggioso, per vedere la segregazione silenziosa e ignominiosa che abbiamo costruito: le barriere non scritte, i confini dell’abbandono, i margini che diventano destino. Potremmo cominciare da lì: da piccole operazioni inclusive, da esperienze virtuose che ricuciono fratture e iati invisibili: ciò che divide senza rumore, ciò che separa senza apparire.
Dove un cortile condiviso, un “Laboratorio del Noi” in cui raccontarsi reciprocamente come si vive la città, come la si sogna, possono diventare luoghi di disinnesco del sospetto e generazione di legami. Non serve l’utopia: serve la scelta gentile della cura, l’arte di riabitare insieme gli spazi, di nominare le distanze per renderle percorribili, senza alcun passo esitante.
Perché l’odio è una follia ancestrale che ha smarrito il nome e ha trovato un bersaglio. E la vera sfida — politica e sociale insieme — è sciogliere la minaccia nell’incontro, spezzare il cerchio sospettoso che ci stringe, e restituire all’umano la sua giusta umanità. Solo così potremo ritrovare respiro. E riconoscere, finalmente, che nessun filo spinato ci proteggerà mai da ciò che abbiamo lasciato incompiuto dentro di noi.