Viviamo nel tempo dei legami mancati o rimossi, del timore che ogni contatto stringa troppo, che ogni stretta si tramuti in cattura. Mani che esitano, che non si protendono più per afferrare, per stringere, per reggere la vertigine dell’altro. Non per paura, ma per il passo claudicante dell’anima. Gli abbracci – quelli veri, quelli che lasciano segni – spaventano.
Hanno la forza di una carezza di ferro, spezzano le armature dell’io, quel piccolo io contratto che si difende da tutto, perfino dall’amore. È la condizione che Lasch chiamava "io minimo": un soggetto impoverito, introflesso, che ha smarrito la capacità di desiderare nel tempo, di sognare con altri, di costruire nella lentezza e nella reciprocità.
Gli orizzonti si sono fatti sbiaditi, torpidi come il fondo di uno stagno dimenticato dal cielo. L’intimità, che un tempo era una fioritura, oggi si è corrotta, disseccata, ridotta a una parodia chimica di sé stessa. Si preferisce l’anestesia alla vulnerabilità, la medicalizzazione alla possibilità di cadere e rialzarsi tenendosi per mano.
Siamo in uno stato di assedio costante: reale o immaginato, non importa. E’ così che ci sentiamo. E allora ci blindiamo, ci isoliamo, fingiamo autosufficienza. Ma il prezzo di questa hybris – il delirio di potercela fare da soli, di non dover più dipendere – è altissimo: chi non rischia più il legame, rinuncia alla vita.
E se fosse l’arte a salvarci? Non l’arte come ornamento, né come rifugio estetico, ma il gesto simbolico come atto sovversivo, come invito al sentire. L’espressione creativa che abita la crepa, che non teme la complessità, che ci ricorda che esistiamo solo nella pluralità dei linguaggi. Pittura, teatro, scrittura, musica, danza, poesia, fotografia, cinema, scultura, performance, installazioni, artigianato, street art, design, canto.
Ogni forma è una soglia, un’eco potente e mirabile che risuona tra i corpi e le coscienze. Perché il linguaggio sensibile ci ricorda che non siamo soli. Ci obbliga a guardare, ad ascoltare, a sostare. E forse proprio lì, in quell’attimo sospeso tra il nostro respiro e quello di un altro, si nasconde la via d’uscita: una nuova grammatica del legame. Una poetica dell’incontro. Un coraggio che non teme di tremare.