Un’inquietudine scivola nel fondo del tempo, invisibile ma ostinata, come crepa che cerca la luce. La scorgo negli occhi dei giovani che si sentono costretti a correre senza mai raggiungere nulla, nelle parole stanche di chi ha imparato a nascondere le proprie fragilità dietro il mito della performance e nel tacere disilluso di chi non crede più che il futuro possa riservare altro che un giorno inchiodato all’identico.
È come se, giorno dopo giorno, stessimo barattando l’empatia, la solidarietà, persino la capacità di pensare e raccontare noi stessi, con un cammino inceppato, senza respiro, saturo di stimoli che confondono, di ansie travestite da obiettivi, di solitudini che si aggirano tra mille connessioni spente. Un presente che non conosce silenzio, né attesa; che soffoca l’ascolto, cancella la sosta e teme la domanda su chi siamo e su ciò che, forse, potremmo ancora essere.
Byung-Chul Han, con la lucidità che lo contraddistingue, svela, senza anestesia, la ferita della nostra contemporaneità nel suo saggio «Contro la società dell’angoscia. Speranza e rivoluzione» (Einaudi, 2025). Han non si limita a descrivere il malessere diffuso come una dannazione individuale, una patologia del singolo.
Al contrario, egli lo riconduce a una matrice ben precisa: è il sistema neoliberale, con la sua ossessione per l’efficienza e la prestazione, che impone un paradigma culturale in cui il valore di una persona si misura sulla base della sua produttività.
In questa morsa silenziosa, la fiducia nel cambiamento viene lentamente spenta da un ingranaggio culturale che rifugge l’ardore del sogno e predilige l’obbedienza quieta di chi ha smesso di credere. Perché chi spera custodisce ancora la scintilla dell’immaginazione, l’ardire del desiderio, il coraggio di intuire un altrove nascosto, silenzioso, ma ostinatamente possibile. E questo, forse, fa paura.
Ma per Han, la speranza non è né ingenuo ottimismo né un’operazione consolatoria passiva. È un atto politico, un gesto rivoluzionario.
Non si tratta di bendarsi gli occhi di fronte alla condizione attuale, ma di guardarla con sguardo profondo e scorgere, proprio nelle sue ferite, le crepe da cui può filtrare l’à-venir di cui parla Derrida: non un futuro già scritto, calcolabile e domestico, ma un avvenire autentico, aperto all’imprevedibile, all’irruzione del nuovo, dell’altro, del possibile.
È in questa apertura radicale che l’attesa viva si fa gesto sovversivo. Leggere questo libro non è solo un esercizio intellettuale: è un confronto diretto con il ritmo che ci consuma, un invito a non arrendersi al verbo gelido dell’efficienza che ci vuole soli, ansiosi, impegnati in una maratona senza traguardo.
Forse il primo passo per sottrarci a questa trappola è proprio quello di riscoprire che l’arte di intravedere l’invisibile non è una fragilità, ma un’occasione di trasformazione: una spinta gentile capace di riscrivere il domani e di affermare, contro ogni rassegnazione, che l’orizzonte resta aperto. Perché, come scrive Han, «solo chi spera è in grado di vedere ciò che non è ancora». Non è una fuga, la speranza: «non consola, mette in moto».