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La pelle che ricorda: storie incise nel corpo

sabato 8 marzo 2025
di Angelo Palmieri

Esiste un diario che non conosce menzogna, un libro senza inchiostro in cui ogni pagina è incisa dal tempo, dall’amore, dalla paura e dalla speranza.

Daniel Pennac, nel suo straordinario Storia di un corpo, ci consegna una verità che spesso dimentichiamo: la nostra fisicità non è un semplice involucro, ma un testimone silenzioso, un archivio di sensazioni, di dolori e di resistenze. Un organismo che conserva tutto, anche quando la mente tenta di rimuoverne le tracce. 

Tuttavia, oggi il corpo è prigioniero di un'ossessione e teatro di una battaglia, esaltato e negato, esposto e nascosto. Si esige che sia levigato, inalterato, obbediente. Lo si allena alla performance e lo si corregge quando disobbedisce ai canoni imposti.

Eppure, per quanto lo si voglia piegare, esso resta il luogo della sua natura più intima: può essere glorificato o negato, esibito o cancellato, ma non smette di comunicare. I solchi della pelle non sono imperfezioni, ma incisioni della vita, spiragli da cui filtra il vissuto.

Viviamo in un tempo che osanna l'aspetto esteriore senza accettarne l'essenza, che espone senza ascoltare. Da una parte c'è l'esibizione: la carne ostentata, imposta come merce, alla ricerca di conferme nello sguardo altrui. Dall'altra c'è il disagio: corpi che si nascondono, che si rifiutano, che vengono percepiti come prigioni o limiti.

Il paradosso è questo: più la presenza viene ridotta a prodotto, più si dissolve la sua essenza profonda. Pennac ci ha mostrato che abitare sé stessi è un atto di coraggio: significa accogliere il mutamento, onorare la fragilità e dare voce alla propria storia.

La pelle racconta, i muscoli conservano la memoria di ogni brivido, ogni fatica, ogni attesa. La carne è un romanzo che non si può riscrivere a piacimento, una narrazione ininterrotta che attraversa l’esistenza con le sue pagine fatte di febbri, carezze, cadute e riprese.

E allora forse la sfida più grande oggi è restituire alla materia la sua dignità di territorio vissuto. Accettarlo non significa arrendersi, ma riconoscere che è l'unica casa che non possiamo abbandonare, l’unico linguaggio che non mente.

In un tempo che lo vorrebbe plastico e addomesticato, difendere la propria corporeità significa restituirle la libertà di essere ciò che è: una storia irripetibile, un ponte tra il dentro e il fuori, un fragile, potente atto di esistenza.

Perché il corpo non è argilla da modellare né polvere da spazzare via. È il primo e ultimo spazio di resistenza, il tempio in cui si custodisce la nostra irriducibile umanità.

Abitarlo fino in fondo: solo così possiamo restare davvero vivi!

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