Nel cuore antico di Orvieto, tra le ombre lunghe della sera e il respiro profondo delle case di tufo, ho ritrovato Gianluca. Se ne stava seduto al solito tavolino, un bicchiere di rosso tra le mani e il sigaro acceso come un lume discreto nel crepuscolo. L’aria odorava di storia e di fumo, di quei discorsi densi che solo certe amicizie sanno accogliere senza fretta.
«Sai,» mi ha detto, esalando una spirale evanescente che si disperdeva lenta nella penombra, «a volte ci ritiriamo nella solitudine come bestie ferite, certi che il dolore sia un linguaggio universale che l’altro possa leggerci senza bisogno di parole». Ho annuito. Era vero. Avevo atteso, sperato, perfino preteso che qualcuno comprendesse la mia fatica, il mio smarrimento, senza che io muovessi un passo verso di lui. Come se il solo esistere nel tormento dovesse bastare a renderlo visibile.
E così, quante sere ho lasciato che il silenzio mi avvolgesse, convinto che proteggesse più di una parola? Quante volte ho soffocato il bisogno dietro un orgoglio fragile, credendo che il non detto fosse più dignitoso della richiesta? E in quelle attese mute, in quei ritiri d’ombra, il timore del rifiuto scavava ancora più a fondo, come se esporre lo squarcio potesse amplificarne la vergogna.
Il dolore taciuto si fa catena nell’anima, la stringe fino a soffocarla. Ma quello che si affida alle parole è già un seme di rinascita, una crepa da cui filtra il cielo.