Ci sono assenze che non si colmano, fenditure nell’anima che il tempo non ricuce. La morte di una madre è un richiamo antico, una mareggiata improvvisa che ci trascina via, riportandoci a quel primo respiro, a quell’eco di battiti che un giorno ci cullarono. È il grembo che si svuota e ci lascia orfani due volte: figli di un passato irrecuperabile, pellegrini di un vuoto che continuerà a chiamarci per nome.
Eppure, il legame non muore con la carne. Si fa vento tra le stanze, si nasconde nel modo in cui intrecciamo le dita o pronunciamo certe parole, in quella carezza data senza pensarci, ereditata come un dono inconsapevole. Ogni memoria è un passo a ritroso, un viaggio nei giorni in cui qualcuno vegliava su di noi, ci insegnava a restare, a cadere, a rialzarci. L’amore materno è seme che fiorisce altrove, in altre mani, in altre voci, nella dolcezza con cui impariamo, a nostra volta, a prenderci cura.
Ma l’amore che accoglie può anche trattenere, e il ventre materno che ci ha accolti può senza volerlo, diventare catena. Bisogna sapersi sciogliere con grazia, lasciarsi accompagnare fuori senza strappi, altrimenti la sicurezza si fa prigione e la paura prende il posto della libertà. Forse, ogni distacco è un rito: un lento disancorarsi, un battito d’ali esitante prima del volo.
E poi il dolore. Quell’onda scura che ci travolge, che ci vuole muti, in ginocchio. Ci è stato insegnato a rimuoverlo, a coprirlo con gli orpelli della modernità, a fingere che la morte sia solo un’ombra lontana. Ma non si può eludere ciò che ci rende veri. "Là dove cresce il pericolo, cresce anche ciò che salva", scriveva Hölderlin.
E il cuore, per salvarsi, deve attraversare la tempesta e sentire fino in fondo, senza scorciatoie, né anestesie. Così, in questa ferita che si apre, ritroviamo la nostra più profonda umanità. Nella sofferenza che non si dissolve, ma ci trasforma. Nell’assenza che si fa presenza, nel vuoto che ci richiama alla vita, ancora e ancora.