Il mondo a portata di mano
sociale

L'inquietudine che insegna

venerdì 24 gennaio 2025
di Angelo Palmieri

Qualche giorno fa, ascoltavo Lucrezia, giovane animatrice parrocchiale, catechista dalla mente acuta e capace di andare oltre la superficie. “I ragazzi di oggi sono sfacciati, aggressivi, incapaci di fermarsi a riflettere,” mi diceva, con una preoccupazione che rivelava però anche una domanda più grande, quasi inespressa: dove abbiamo smarrito un dialogo che dovrebbe unire e non dividere? La rabbia di cui parlava non è solo un moto spontaneo, ma il frutto di una condizione che appare sempre più diffusa: l’incapacità di dare un significato profondo all’inquietudine.

Questo pensiero si è fatto più chiaro parlando con Vincenzo, docente precario e amico, un osservatore attento della cultura giovanile. "Non possiamo continuare a demonizzare" mi diceva. "È troppo facile dare la colpa ai trapper, ai videogiochi o Internet. Questi ragazzi sono il prodotto di una cultura che li spinge a cercare scorciatoie, che celebra la via facile invece della strada difficile". Una frase che ha colpito nel segno. È vero: viviamo in una società che ha reso il percorso lineare, senza salite né curve pericolose, un ideale da perseguire. E così, nel nostro tentativo di proteggere i giovani, abbiamo finito per privarli di uno degli strumenti più preziosi: la capacità di affrontare il rischio e di fare un passo falso.

Penso a Marco, un ragazzo di diciassette anni che Vincenzo segue a scuola. Un giorno, tra una lezione e l’altra, ha esclamato: "Prof, se sbaglio, è la fine". È una frase che racchiude l’essenza di questa cultura della comodità illusoria: non ci si può permettere di cadere, non si può sbagliare, perché ogni fallimento sembra definitivo. Eppure, non è proprio l’errore che ci insegna la bellezza della scoperta, il coraggio del ricominciare? I giovani, anestetizzati dall’idea di un mondo che propone alternative semplici e approcci superficiali, rischiano di non assaporare la complessità della vita.

Lucrezia rifletteva su come la nostra società, per evitare di esporre i ragazzi al dolore, li incoraggi a spegnere ogni sensazione di tensione emotiva, a soffocare la rabbia, a trasformarsi in spettatori, piuttosto che protagonisti. Ma l’inquietudine, lo sappiamo bene, non è una nemica da temere, ma una forza da abbracciare. È nelle domande irrisolte, nelle notti insonni e persino nelle deviazioni che si nasconde la possibilità di una trasformazione autentica.

È qui che si annida una delle grandi responsabilità del mondo adulto. Nel tentativo di costruire un’esistenza comoda, abbiamo indicato ai giovani la via della minima resistenza, convincendoli che la felicità stia nell’assenza di conflitti e non nella capacità di affrontarli. Eppure, la vita autentica si trova nelle strade impervie, nei sentieri che chiedono fatica, e anche nel coraggio di restare inquieti senza trovare subito una risposta.

Vincenzo mi diceva: "Non possiamo pensare di modellare i giovani secondo il nostro volere. Dobbiamo lasciarli sbagliare, lasciarli sperimentare la vertigine dell’incertezza". E ha ragione. Se continuiamo a spianare loro la strada, li priviamo della possibilità di scoprire chi sono davvero. L’inquieto disagio, la frustrazione, persino il fallimento sono strumenti preziosi che li aiutano a forgiare una propria identità.

Forse, il vero scivolone non è sbagliare, ma aver paura di farlo. È il momento di fare un passo indietro, di lasciarli respirare il vento contrario, di consentire loro di percorrere anche le strade difficili. Non possiamo soffocare la scintilla del turbamento, ma dobbiamo insegnare loro a riconoscerne il valore. Perché in quel disagio c’è la forza di chi non si accontenta, di chi cerca, di chi osa. E probabilmente, noi adulti, potremmo riscoprire la bellezza di non avere tutte le risposte!