Il succo ai mirtilli e il peso dello stigma: ripensare la malattia mentale a partire da Renzino
Lo riconosci subito, Renzino. Un nome di fantasia, certo, ma una presenza reale e inconfondibile. La sua andatura dinoccolata segue un ritmo tutto suo, accompagnata dai tic nervosi che raccontano storie di fragilità nascoste a fatica. Tra le dita, una sigaretta MS accesa con compulsione e il suo immancabile succo ai mirtilli, che chiede al bar con una grazia disarmante e una cortesia d’altri tempi. La sua figura ti cattura, con quei gesti e quelle domande che sembrano semplici ma svelano una profondità esistenziale rara.
Eppure, c’è un interrogativo che non esprime mai apertamente, ma che accompagna chiunque lo incontri: Come trascorre le sue giornate? Un pensiero che porta con sé il peso della solitudine, del disagio e, soprattutto, dello stigma sociale che circonda chi vive la malattia mentale.
Sono passati oltre quarant’anni dall’approvazione della legge Basaglia, che demolì i manicomi e restituì dignità a migliaia di individui. Tuttavia, il cammino resta incompleto. Mentre nelle grandi città si sono intessute alcune reti di sostegno, nei centri più piccoli lo stigma si rivela ancora opprimente, silenzioso ma capace di ferire profondamente.
Questo marchio sociale, più che un semplice pregiudizio, diventa una barriera invisibile che isola e ostacola l’accesso a cure adeguate. Le sue conseguenze si riversano sulla vita quotidiana di chi ne è colpito, moltiplicando il senso di esclusione e rendendo più arduo il percorso di assistenza e guarigione.
Non è solo questione di risorse economiche, benché il sistema sanitario pubblico sia in evidente difficoltà. La crisi è anche culturale. Abbiamo costruito servizi che si sono allontanati dagli individui, fisicamente e simbolicamente. Abbiamo separato la sofferenza dalla persona che la vive, dimenticando che l’assistenza non è solo tecnica, ma anche umana. Occorre ricostruire prossimità, relazioni, significati.
La sfida è duplice. Da un lato, serve ripensare i luoghi di cura affinché tornino a essere spazi accessibili, familiari e accoglienti. Dall’altro, occorre lavorare per abbattere questo “segno d’infamia”, superando la paura e i preconcetti che ancora permeano la società.
E poi c’è Renzino. La sua presenza, così enigmatica e al tempo stesso quotidiana, ci interpella. Non è soltanto un volto familiare che incontriamo al bar, ma un simbolo della complessità umana e delle sfide che siamo chiamati ad affrontare. La sua gentilezza, i suoi tic, il suo succo ai mirtilli ci ricordano quanto sia importante guardare oltre le apparenze e avvicinarci all’altro senza timori.
La vera rivoluzione non è solo clinica, ma culturale. Si tratta di imparare a vedere chi vive la malattia mentale non come un problema, ma come un essere umano con una storia, dei bisogni e una dignità. Forse è questa la cura più urgente: una nuova forma di prossimità che ridia spazio alla quotidianità condivisa, dove un gesto semplice, come chiedere un succo ai mirtilli, possa essere solo un momento ordinario e non un grido silenzioso di solitudine.