sociale

La disobbedienza non è più una virtù

giovedì 24 ottobre 2024
di Vincenzo Abbatantuono (docente di Lettere) e Angelo Palmieri (sociologo)

È un dato di fatto, nonostante il goffo tentativo di minimizzarne il contributo, come faceva Leopoldo Grosso, vicepresidente del Gruppo Abele nel 2021 in un articolo su “Lavialibera”, che i lockdown abbiano lacerato profondamente il tessuto connettivo della nostra società, indebolendo e fomentando le aree vulnerabili, in primis i giovani e i giovanissimi, a cui è toccato l'onere peggiore: l'isolamento sociale e la virtualizzazione dei rapporti personali. In “Il virtuale”, un vero e proprio manuale di filosofia del virtuale, Pierre Levy sostenne nel 1997 che la virtualizzazione fosse una sorta di eterogenesi dell'umano ma che sarebbe stato sbagliato avversarla, sottovalutando tuttavia il momento in cui virtuale e reale avrebbero finito per coincidere. Secondo l’autore la natura del virtuale è neutra.

È il modo in cui lo attualizziamo a dover essere discusso, e Lévy ci dona tutti gli strumenti per farlo. L'escalation di violenza giovanile, dalle baby-gang che ormai non fanno più notizia alle risse quotidiane nei luoghi della movida o addirittura fuori dalle scuole, gli omicidi per futili motivi, come quello più recente commesso a Rozzano per due cuffiette da 15 euro, sono indicatori gravissimi di quello che una volta si definiva disagio ma che oggi potremmo ricondurre ad una vera e propria ondata di violenza nichilista generazionale, imprevedibile e destinata a moltiplicarsi, in cui le movenze degli attori somigliano a quelle dei protagonisti virtuali dei videogiochi, come Thrill Kill, in cui  ogni combattimento ha luogo con quattro contendenti e una peculiarità: non è presente una barra di energia vitale che si riduce a ogni colpo subito, ma una che si riempie a ogni attacco.

Si colpisce come se si fosse davanti alla propria consolle, i colpi inferti sono dematerializzati, non si ha la benché minima percezione del dolore arrecato, non c'è nessun codice d'onore, la propria energia vitale, come in Thrill Kill, si ricarica ogni volta che si arreca un danno al “nemico”. In uno studio delle facoltà di Biologia e Psicologia dell’università di Sydney hanno recentemente pubblicato uno studio pubblicato su Motivation Science a proposito della predilezione dei videogiochi violenti da parte dei giovani. Michael Kasumovic, uno degli autori di questo studio, ha spiegato i risultati della ricerca, indicando che i videogiochi violenti vengono preferiti poiché capaci di soddisfare i bisogni psicologici dell’uomo, quali migliorare le capacità nei confronti degli altri e superare le nostre paure.

Siamo teoricamente tutti d'accordo nel ritenere sbagliato affidare telefoni cellulari ai bambini in un ristorante, salvo poi continuare a farlo per consentirci una pausa nella nostra affannosa genitorialità, e preferiamo non indagare sulle abitudini virtuali dei nostri figli adolescenti che si trasformano in mostri bestemmiatori nelle loro camerette mentre si azzuffano con avversari sconosciuti online, sino a quando non sperimentiamo direttamente gli effetti nefasti di quell'accumulo di violenza solo apparentemente inibita alla meta e altrettanto apparentemente relegata in una dimensione virtuale.

Un articolo dello psicologo americano Jonathan Haidt “End the phone-based childhood now”, ha indagato il rapporto fra salute mentale degli adolescenti e tecnologia, sostenendo che l’utilizzo degli smartphone e dei social network sia correlato all’aumento di depressione, ansia e autolesionismo tra i giovani della Generazione Z (i nati tra il 1995 e il 2010), il cui tempo trascorso offline si è ridotto notevolmente, condizionandone negativamente la quotidianità. La vita online, per gli adolescenti, è vita reale. Il filosofo Luciano Floridi utilizza il termine vita onlife, per descrivere l’esperienza di un mondo iperconnesso privo di distinzione fra online e offline, per evidenziare in sostanza la natura ibrida delle nostre esperienze quotidiane. La tecnologia, in un processo evolutivo, non si riduce a semplice strumento, di cui occorre valutare, di volta in volta, l’uso che se ne fa, ma incide, per la sua pervasività, sulla coscienza provocando una vera mutazione antropologica.

Dunque, potremmo sostenere, a ragion veduta, che l’affermarsi del paradigma tecnologico e la difficoltà a fare ad esso corrispondere un parallelo adattamento della coscienza ha generato sofferenza psicologica nei più giovani. Un disagio serpeggiante che è parte di noi, crescente e patologico che non indugiamo a ritenere in buona parte conseguenza di un periodo di socialità negata e dunque sostituita da una dimensione di virtualità sintetica che svuota di ogni significato la realtà che si fa fatica a riconoscere. Ma sicuramente un disagio giovanile, e più in generale della civiltà, che va al di là della crisi pandemica del 2020, generato dalle nevrosi dell’esistenza moderna, dal nichilismo, dalla crisi degli epistemi, ovvero dalla completa perdita di orizzonti e di orientamento. Una crisi valoriale che non riesce più a significare il processo formativo della personalità.

Persiste, infatti, l’egemonia di modelli culturali, espressione dei valori di un mondo adulto e gerontocratico che a nostro parere sono altrettanti fattori che concorrono ad alimentare il disagio, che assume sempre più le caratteristiche di un vero e proprio malessere ontologico. Paradigmatica è la triste storia del giovane Giacomo Sartori che a Milano nella notte tra il 17 e il 18 settembre 2021 è spinto al gesto estremo del suicidio dopo il furto subito del suo zaino contenente il suo computer: sconsolato e turbato lascia il gruppo degli amici con cui si trovava, mosso da un infinito sconforto che lo rende inquieto, facendolo precipitare in uno straniante senso di vuoto e di smarrimento, e decide di mettere fine alla sua vita. La sua morte si fa simbolo del disagio giovanile nelle nostre città, un disagio che assai spesso porta ad una resa di fronte alla vita e alle circostanze avverse che l’attraversano.

Come Giacomo molti giovani si ritrovano troppo spesso come ingabbiati nei mortiferi meccanismi della società d’oggi e come occlusi dagli asfissianti ingranaggi della omologazione che finiscono per ingenerare una scarsa fiducia in sé, nella famiglia e negli altri. In dissidio con la realtà circostante si precipita nel buio del disturbo depressivo e delle frustrazioni più esasperate. Viviamo in un tempo in cui tutti aspirano a mostrare il lato più performante di sé, alla certezza di una coscienza di un sé perfetto, che si rivela sempre più un grande bluff. L’omologazione culturale (quale modello dominante?) e la crescente difficoltà di reperire precisi modelli identitari di riferimento comportano inevitabili fattori di rischio, che finiscono per accrescere la condizione di disagio giovanile.

Oggi i giovani sono sottoposti dalla società a continue spinte di accelerazione che non riescono a contenere e spronano a forme di individualismo e di sfrenata competizione che si insediano nell’inconscio dei giovani e in modo più o meno consapevole portano a quella sindrome di dipendenza quali sono le droghe, internet, videogame, sindromi alimentari. Ma torniamo sulla crisi valoriale. Ciò fonda le proprie radici nel processo di secolarizzazione abdicando alle grandi questioni del senso e del fondamento. Assistiamo all’affermarsi di quel “politeismo dei valori” (o dei “sistemi valoriali”) – come Max Weber lo definisce – conseguenza del “disincantamento del mondo”.

L’ischemia delle grandi narrazioni religiose, del pensiero metafisico e dei progetti ideologici toglie all’etica le basi tradizionali su cui fondare l’agire umano, lasciando il posto a criteri meramente utilitaristi ispirati alla logica del “mercato”, divenuto pensiero unico e trasversale. Pertanto unico obiettivo è rappresentato dall’efficienza produttiva e il consumo a svantaggio della costruzione di una vera identità sempre più provvisoria, frammentata che sfocia nell’apatia, nella totale indifferenza, nella cura di un sé dispotico, pronto ad assumere un atteggiamento camaleontico nei contatti con gli altri.  

È misurabile nella pratica clinica la condizione di solitudine che gli adolescenti e i giovani vivono. La famiglia e la scuola, sono sempre più sottosistemi disfunzionali, e i rapporti con i giovani sono puramente formali e poveri di contenuto simbolico: ne consegue uno stato di isolamento, che li porta a chiudersi su sé stessi spingendoli ad un uso sempre più sregolato del computer, che riduce gli spazi di socializzazione con i coetanei e favorisce il ricorso a relazioni puramente virtuali. 

Circa il tema della questione valoriale, il filosofo Giannino Piana propone di trovare un terreno comune attorno a cui convergere nella ricerca di un ethos civile indicando come metodo quello fornito dall’etica della comunicazione delineata da Habermas “la quale presuppone il reciproco rispetto delle posizioni dei vari gruppi sociali e la seria volontà di cooperare tra loro in vista di una possibile convergenza”. Oggi, senza precomprensioni e lungi da lezioncine dal sapore moraleggiante, adolescenti e giovani necessitano di un punto-fermo su cui contare. Ma forse la strada da percorrere va ricercata in un patto intergenerazionale. Altro aspetto relativo al disagio dei nostri ragazzi attiene allo stato di salute della famiglia.

Occorre forse recuperare il principio di autorità, senza timore di incorrere in scomuniche ideologiche, cascami psicopedagogici di un tempo passato che oggi non ci offrono ricette valide per fuoriuscire da questo inquietante scenario segnato dal nichilismo. La capacità di dire di “no” ad alcune richieste o di correggere alcuni comportamenti sbagliati aiutano a crescere, come suggeriva un bestseller di qualche anno fa che fece scalpore per le ovvietà rivoluzionarie che suggeriva. Non ultimo per rilevanza, urge un ripensamento del sistema - scuola e del suo processo educativo, restituendo soprattutto dignità ai docenti e valorizzandone il ruolo nella società, senza barricate ideologiche, perché non è di destra sanzionare maleducazione e ineducazione ma una necessaria prevenzione di comportamenti scorretti che sfociano, prima o poi, nell’illegalità. Qui subentra ovviamente la crisi profonda della famiglia e della genitorialità e, come il famoso cane che si morde la coda, la rinuncia alle funzioni di genitore sin dall’infanzia.