L'esilio quotidiano di Stefano

Il bar della stazione sa di caffè bruciato e attese sospese. La porta si spalanca con un colpo di vento, e un uomo entra lasciandosi alle spalle il gelo capriccioso di marzo. È Stefano, lo riconosco subito. Lo sguardo eroso dalla routine, si arrampica su un binario per scendere in un'esistenza che non gli appartiene. Ogni mattina si lascia inghiottire dal serpente d’acciaio diretto a Roma, senza un sogno in tasca, solo una borsa logora e l'ennesima speranza tradita.
Lavora in uno studio di commercialisti prestigioso, dicono. Ma le sue mani, capaci di edificare il domani, si aggrappano a un salario esiguo, destinato a sfumare tra corse affannate sui treni e pasti ingoiati in fretta. Una paghetta da adolescente in cambio di giornate svuotate. Stefano ha una figlia, Adelaide. Il suo nome sa di regina, di spazi sconfinati, eppure lui si sente prigioniero.
Quella che chiama casa è solo un dormitorio, un limbo tra l'illusione e la resa. A Orvieto Scalo i treni non aprono prospettive, ma solo fughe necessarie. Ha provato a intrecciare radici con la sua terra, a trovare un varco nel suo tessuto vivo, ma ha incontrato solo porte chiuse, silenzi pesanti, la polvere della stagnazione.
Ha cercato spazi in cui dare forma ai suoi progetti, forse un coworking dove intrecciare idee con altri giovani come lui. Ma qui tutto resta immobile, fermo come una statua erosa dal tempo. Eppure, non servirebbe molto: un vecchio edificio riqualificato, una biblioteca che si apra al confronto, un caffè che diventi fucina di pensieri. Un laboratorio creativo dove mani e menti si incontrino, un orto urbano che insegni a coltivare speranze, un teatro aperto alle voci di chi ha qualcosa da dire.
Piccoli gesti capaci di trasformare l’attesa in seme di futuro. Orvieto sembra stringersi attorno ai suoi abitanti, soffocando ogni tentativo di rinascita. Così, ogni giorno, Stefano se ne va e ogni sera torna, senza mai sentirsi a casa. Perché quando si vive tra due mondi, non si appartiene a nessuno. Lo ascolto mentre mescola il caffè senza berlo, gli occhi fissi su un punto invisibile. "Non c'è via d'uscita", mormora.
E in quel momento vedo l’immagine di tanti altri Stefano, incastrati tra la fatica e l’abbandono. Ma se non siamo noi a riaccendere le comunità e ridisegnare i confini delle opportunità, chi lo farà? Forse la vera sfida non è solo reinventare la meta, ma cambiare sguardo. E se qui non c’è futuro, allora tocca a noi plasmarlo, con la rabbia e il coraggio di chi non vuole spegnersi.
Perché le città muoiono quando chi le abita smette di crederci. E la politica locale? Starà ancora a guardare i vagoni che sfilano via contando partenze e rimpianti, o avrà finalmente il coraggio di dare una ragione per restare?

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