Dieci anni dall'eccidio di Charlie Hebdo
Je suis toujours Charlie et surtout aujourd'hui.
Dieci anni fa accadeva qualcosa di sconvolgente, inaudito, impensato, ma non insensato e né incensato. Dodici giornalisti, fra cui vignettisti, scrittori e autori di satira, venivano trucidati nella redazione della rivista Charlie Hebdo a Parigi, dalla nevrosi, più che dalla follia direi, religiosa e fondamentalista islamica.
Ricordo che ci fu grande sdegno e indignazione; uno sgomento unanime, trasversale, di condanna si levò contro un vero e proprio atto terroristico contro dei "miscredenti" che avevano osato ironizzare sul profeta. Fu un colpo tremendo contro la libertà di espressione, che mise in serio pericolo l’idea di un’Europa sicura, protetta, inattaccabile, ormai da decenni, e aliena da tragedie simili. Neanche l’America lo era più dopo i fatti dell’11 settembre del 2001. In quei giorni tutti erano Charlie, un famoso hashtag, #jesuischarlie imperversava sul web e i social, in particolare sul vecchio Twitter, dove la censura non aveva ancora fatto calare la sua tagliente e implacabile ghigliottina.
A eccezione però del primo momento di sgomento mondiale, successivamente in molti, ahimè soprattutto in Italia, iniziarono a tirare i remi in barca della loro solidarietà nei confronti degli autori delle vignette, vittime sacrificali dello scontro etnico-religioso che ormai apparteneva solo ai tempi lontani delle crociate e della lotta per il Santo Sepolcro. Gli italiani iniziarono a prendere le distanze e ad avere meno compassione per i sopravvissuti, men che meno per i morti, perché offesi, a loro volta, dalla pubblicazione sulla stessa rivista di una vignetta che stigmatizzava le questioni legate al terremoto in Italia.
Ricorderete la vignetta che raffigurava alcuni uomini schiacciati sotto strati di lasagna, paragonando le costruzioni di cemento appunto a pasta sfoglia. I nuovi “terroristi italici” non compresero che quella vignetta non era indirizzata contro le vittime o tesa a schernirle, a denigrare la loro morte, ma al contrario nasceva e si realizzava per denunciare il sistema marcio della politica e dei costruttori, che speculavano su vite umane, poiché per la fame di denaro innalzavano palazzi ed edifici che rasentavano la consistenza di castelli di sabbia sulla spiaggia, descritte appunto come lasagna al forno.
E allora in quei giorni tantissimi italiani affermavano orgogliosamente di non essere più Charlie, indignati e sdegnati come al tempo di quel tremendo attentato. Perché quelli che prima erano degli eroi e che si erano erti contro l’ottusità, l’ignoranza, contro la violenza, colpendola con la satira e l’ironia, spesso caustica e irriverente, si erano magicamente trasformati nel male assoluto, in pericolosi nemici della patria, in insensibili sciacalli. E mentre prima si sventolava, orgogliosamente, la bandiera della libertà di espressione e di satira, scagliandosi contro chi osava limitarla, d’un tratto si ammainava e si agitava uno straccio con cui colpire e schiaffeggiare quei primigeni paladini della parola senza catene. "Nessuno tocchi i miei valori, sbeffeggi solo quelli degli altri. Ridiamo di voi, ma guai a ridere di noi".
Purtroppo non si afferra, vuoi per mancanza di strumenti, per cecità intellettuale o per banali motivi fideistici o di partigianeria (nel senso di parte) che la satira spesso utilizza un linguaggio fatto di antifrasi, iperboli, paradossi e che soprattutto non funziona allo stesso modo o con l’intento che aveva quando è nata. Noi oggi la intendiamo, a mio avviso erroneamente, con fini esclusivamente comici e di divertimento. Purtroppo l’etimologia di quest’ultima parola ci sfugge dato che di-vertire significa "portare da un’altra parte", sia nel senso di sorprendere, e quindi sì di generare la risata, ma anche in quello di portare verso un significato e un messaggio diverso, che non fa sorridere, ma indigna, facendoci vedere le cose da un altro punto di vista. Abbiamo dimenticato, o molti lo ignorano completamente, quali sono le radici in cui la satira affonda, sia quelle del tempo, che quelle delle norme, delle regole (anche se a mio avviso non dovrebbero esserci regole, tranne quelle del sentire personale), della critica, del tono predicatorio, moralistico, edificatorio, dell’invettiva con toni amari, caustici, ai quali oggi si aggiunge quello dissacrante.
È che oggi, nell’epoca della cloroformizzazione del linguaggio, delle differenze culturali, sociali, del pensiero che mette in questione, stiamo inesorabilmente scivolando in un “nuovo mondo”, fatto di sicurezza totalizzante, di controllo ossessivo, dove nulla deve sfuggire, attraversando le maglie della corazza che ci siamo costruiti intorno, senza pensare che la corazza monadica e monastica, ci protegge sì dall’esterno, ma ci impedisce anche di comunicare con l’esterno. Stiamo affondando in un’autoreferenzialità che sfiora l’autismo. Questa deriva è ancor di più emersa con l’avvento delle nuove tecnologie, dai social, al commercio on line, fino all’asfissiante ricerca della digitalizzazione che subdolamente ci abbraccia e ci fa sopire i sensi come in una bella, calda accogliente culla, dove niente e nessuno può, anzi, deve più crearci problemi o metterci in difficoltà. Sarà così però che, sebbene protetti, non riusciremo a comprendere cosa sarà bene o male per noi, azzerando il nostro senso critico e la possibilità di scelte consapevoli. Anche voler disarmare la satira e il politicamente scorretto potrebbe rientrare in questo dolce disegno.
E quindi:
Tutto sarà sotto il nostro controllo
Non toccandoci colpi di sventura:
La nostra mente non avrà un tracollo
Non avremo timore né paura.
Saremo come in batteria il pollo
Senza coscienza di questa avventura
Che la vita ci riserva ogni giorno
In attesa di finire nel forno