L'intervista impossibile a Freud di Guido Barlozzetti

Al teatro Tordinona, nell’ambito del ciclo Interviste Impossibili, è andata in scena una conversazione fuori dal tempo con uno dei personaggi più rivoluzionari della storia del pensiero: Sigmund Freud. A dar voce al padre della psicoanalisi è stato Sergio Nicolai, mentre a condurre l’intervista è stato Guido Barlozzetti, che ha ricostruito con rigore e immaginazione un incontro con lo scienziato austriaco.
L’evento, curato da Laura De Luca e diretto da Renato Giordano, si inserisce in un format teatrale che da anni porta in scena dialoghi impossibili con grandi protagonisti del passato. E chi meglio di Freud, il pioniere dell’inconscio, poteva prestarsi a un gioco tra realtà e immaginazione?
“Un’intervista impossibile - spiega Guido Barlozzetti - è sempre un gioco, a metà strada tra immaginazione e realtà. Intervistare Freud vuol dire avvicinarsi con umiltà a un pensatore scienziato che ha rivoluzionato il nostro modo di considerare la coscienza e aperto il retroscena dell’inconscio. Significa anche confrontarsi con una vita complessa, un ebreo orgoglioso della sua appartenenza e ateo, un rapporto complesso con il padre, l’intreccio inevitabile tra la sua personalità e la ricerca che stava conducendo, le speranze e le illusioni legate alla psicoanalisi”.
A partire da questa premessa, Barlozzetti ha scelto di immaginare Freud in un momento storico preciso, un punto di svolta della sua esistenza.
“Nell’intervista lo immagino nel 1938, nell’estremo limite ormai della sua vita, a Londra dove si era rifugiato lasciando l’Austria su cui incombevano i nazisti, malato di un cancro ormai incurabile, all’orizzonte la barbarie della guerra - commenta Barlozzetti -. Un momento assai particolare dunque in cui si trova a ripercorrere tutta la sua vita, a interrogarsi sulla sua identità, sulla scienza di cui è stato l’artefice, sulla responsabilità come uomo, padre, marito, scienziato”.
L’interesse di Barlozzetti per Freud affonda le sue radici in un’attrazione intellettuale per le figure che hanno rotto gli schemi consolidati.
“Freud mi ha sempre affascinato - prosegue -. Sono sempre stato attratto intellettualmente da personalità che hanno cercato di uscire dal perimetro delle idee dominanti spesso divenute trappole conformistiche. In questo senso Freud che pure non era un filosofo, anzi rigettava da sé questa identità, ha contribuito profondamente a una revisione del nostro concetto di ragione e a darci una visione problematica della nostra coscienza e del bordo fragile e contraddittorio su cui si trova, fino alla nevrosi e alla malattia mentale. In questo, guardando indietro, trovo affinità anche con personalità su cui ho lavorato per realizzare racconti teatrali, come Pier Paolo Pasolini, Stanley Kubrick e recentemente Tommaso D’Aquino”.
Questa prospettiva di ricerca lo ha portato a indagare più da vicino alcuni episodi significativi della vita di Freud, tra cui il suo legame con Orvieto.
“Freud è passato più di una volta ad Orvieto. Quando è arrivato la prima volta, nel 1897, era in un periodo molto particolare della sua vita, segnato dalla morte del padre e dunque anche da una relazione complessa che ha avuto con lui, di rispetto, ammirazione, ma anche con ombre che per certi versi riportavano al complesso edipico e anche all’identità ebraica. Freud, lo dico con tutta la cautela del caso, per un verso ha dovuto fare i conti con l’ombra del padre, per l’altro ha cercato un Padre con la maiuscola che rappresentasse il suo ideale di autorevolezza e di dominio dei sensi e delle pulsioni. E lo ha trovato forse in Mosé, nella figura di quello scolpito da Michelangelo a San Pietro in Vincoli a Roma. Questo percorso ho cercato di seguire in un testo, Il viaggio di Freud. Orvieto e Signorelli, il Trasmeno e Annibale, poi diventato, nel 2019, un racconto teatrale, Herr/Freud, Signorelli e Mosè. Il rebus”.
A questa esperienza si lega anche un episodio particolarmente significativo, che avrebbe avuto un impatto determinante sul suo lavoro teorico.
“Un passaggio è importante in questa storia e per certi versi decisivo è quando Freud si trova di fronte agli affreschi di Luca Signorelli nel Duomo. Lì vede la potenza terrificante dell’aldilà e sente su di sé incombere il Giudizio. Un anno dopo mentre sta viaggiando in Bosnia-Erzegovina dimentica il nome del pittore ed è lui stesso ad interrogarsi sul perché. E la sua riflessione lo porta a scrivere Il Meccanismo psichico della dimenticanza, prodromo per certi versi de L’interpretazione dei sogni. Un testo fondamentale perché Freud vi coglie la natura linguistica dell’inconscio e soprattutto, analizzando se stesso, capisce come funziona il meccanismo della rimozione e dunque l’inconscio”.
Tuttavia, affrontare Freud, per Guido Barlozzetti, significa procedere con cautela, evitando letture riduttive e schematizzate.
“Quando si entra in questi territori bisogna avere molta prudenza, lo dico anzitutto a me stesso. Freud è stato ridotto troppo spesso a comode formulette, a delle equazioni semplicistiche, buone per ogni stagione e per ogni situazione. Invece, ci troviamo di fronte a un esploratore che avanza, prova strade, va avanti, torna indietro, si sposta in un’analisi come dice lui stesso terminabile e interminabile. Lo ha fatto con il rigore dello scienziato, forse anche con il limite di una cultura positivista, ma con la consapevolezza dell’ambiguità sfuggente e tremenda della realtà in cui si addentrava. Flectere si nequeo Superos Acheronta movebo”.

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