Siamo tutte un po' Claudia: oltre la ferita

Alcune storie sono brezze che sfiorano l’anima, altre pesano come cicatrici che il tempo non sa lenire. "Siamo tutte un po’ Claudia" di Mara Tribuzio (Historica Edizioni) è una di quelle narrazioni che non si limitano a essere ascoltate, ma risuonano dentro, scavano solchi profondi, costringono a guardarsi allo specchio. Non è soltanto una raccolta di racconti, ma un viaggio nelle pieghe più segrete dell’anima femminile, un pellegrinaggio tra speranza e disincanto, tra la sete d’amore e il labirinto ingannevole della dipendenza.
Un affresco di vite sospese, di voci che sussurrano e urlano. Frammenti di esistenze in cerca di risonanza, di un nome che non sia più velatura, ma verità. Non è un nome, ma un destino, un’ombra sottile che accompagna il cammino di molte donne. Il suo significato, radicato nel latino claudus – colui che zoppica – si trasforma in una metafora dell’esistenza femminile intrappolata tra brama e sacrificio, tra sogno e prigionia. La sua storia è lo specchio di una fragilità tramandata, il riflesso di generazioni cresciute nell’idea che il legame sia attesa, dono incondizionato, annullamento di sé.
È la narrazione di chi si è smarrito nell’altro prima ancora di trovarsi, di chi ha confuso la dedizione con il destino, il sacrificio con il respiro stesso della vita. Nel primo racconto, Siamo tutte un po’ Claudia, la sua presenza fisica diventa terra di confine, campo di battaglia e reliquia profanata, un'offerta silenziosa sull’altare di un sogno che si sgretola. Si era offerta senza riserve, credendo di essere carezza e non sacrificio; aveva smarrito i contorni di sé fino a dissolversi in un’eco distante, una traccia scomposta nel riflesso di un’assenza.
"Nuda, così mi sento adesso. Ho prestato il mio corpo a un corpo non mio, scambiando il prestito per dono". Le parole inciampano, si frantumano nel silenzio, mentre il respiro della narrazione si fa affannoso, come il battito stanco di un cuore che ha amato fino a consumarsi. Si è smarrita in un legame che era solo miraggio, un riflesso di felicità rubata tra le pieghe di un tempo che non le apparteneva. Si è donata senza misura, senza sapere che, per l’altro, non era che una parentesi, un istante da dimenticare quando l’alba ha spento l’illusione.
Lei stessa, usata e poi restituita con l’indifferenza con cui si ripone un oggetto, era diventata la scena di un crimine invisibile: la colpa della perdita di sé. Ma c’è una verità che deve imparare a riconoscere: il mostro non è solo fuori, è anche dentro. Non è solo l’uomo che la usa e la dimentica, ma la voce interiore che la spinge ad accettare meno di ciò che merita.
"Questa condanna invisibile è la convinzione che per essere amate si debba prima essere ferite". Se Siamo tutte un po’ Claudia racconta la dipendenza affettiva e la ricerca di un’identità che si frantuma nell’altro, Tanto solo le donne sanno come sono le donne svela un’altra ferita, più nascosta, più crudele: quella della maternità che, invece di unire, diventa spartiacque, distanza, perdita.
"Cercavamo Nicolò come si cercano i diamanti in miniera". Un figlio desiderato, atteso, che diventa il confine tra un prima e un dopo. Prima della gravidanza, Massimo divorava la protagonista con passione, poi nulla, solo il silenzio di un’assenza già scritta. Quel corpo, un tempo desiderio, ora è solo funzione: nutrimento, cura, contenitore. E il tradimento arriva come un presagio inevitabile, come una verità che le donne riconoscono con il sesto e il settimo senso, molto prima che sia pronunciata.
Qui il dolore non si urla, si consuma nel silenzio solitudine, nella depressione post partum affrontata senza sostegno, nella frattura silenziosa tra ciò che si era e ciò che si è divenute. Mara dà voce a questa sofferenza con parole che graffiano, con una scrittura che non consola ma rivela, che non addolcisce ma incide.
Quella raccontata non è una storia individuale, è una condizione collettiva, il riflesso di una cultura che ancora insegna alle donne a misurarsi attraverso lo sguardo altrui. Da un punto di vista sociologico, il libro di Mara Tribuzio è un viaggio nelle costruzioni culturali dell’amore e della dipendenza emotiva, un affresco delle dinamiche sociali che modellano l’identità femminile all’interno di un sistema relazionale sovente sbilanciato.
Sin da sempre, si insegna che il dono di sè è desiderio inespresso, devozione, sacrificio. L’esistenza viene intrecciata all’arte di accogliere e comprendere, di farsi carico degli altri, fino a consumarsi nel tentativo di aderire a un’idea di femminilità che ancora oggi si nutre di resistenza e pazienza. Il femminile, costruito culturalmente come uno spazio di accoglienza, diventa spesso prigionia emotiva, un territorio in cui il legame si misura nella capacità di sopportare. Ma chi dona loro la forza di bastarsi?
Le dinamiche di potere nelle relazioni affettive sono state oggetto di numerosi studi sociologici, da Pierre Bourdieu, che ha teorizzato il concetto di dominazione simbolica, a Eva Illouz, che ha analizzato come il capitalismo emotivo abbia trasformato l’amore in un mercato governato da dinamiche di potere e scambio.
Eppure, il libro di Tribuzio disegna una frattura in questo schema. Il suo stile narrativo, intenso e privo di indulgenze, mostra come le donne possano riconoscere la propria autodeterminazione, riscrivere il senso della loro esistenza al di fuori delle aspettative imposte, trovare una libertà che non sia più concessione altrui, ma scelta consapevole.
Mara ci offre un’opera intensa, tagliente, che non concede vie di fuga ma solo spazi di riflessione. Un manoscritto, come adora chiamare i suoi libri, necessario per chi vuole capire, riconoscersi, guarire.
Leggetelo: parla di donne, di libertà e di noi.

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