Le piazze vuote e il bisogno di comunità
Nel libro, Le piazze vuote. Ritrovare gli spazi della politica, edito da Laterza, Filippo Barbera ci invitava ad una riflessione che oggi, ancor più di ieri, si rivela di stringente attualità, quella sul rapporto tra spazio pubblico e azione politica e ci offriva una prospettiva densa di suggestioni e di profonde implicazioni per il futuro delle nostre democrazie, muovendosi con eleganza tra sociologia, urbanistica e teoria politica. Barbera interroga il significato della piazza come luogo simbolico e materiale, catalizzatore di partecipazione e specchio delle dinamiche di svuotamento che attraversano le società contemporanee.
Barbera si colloca in un solco di riflessione che ha radici lontane, ma che si confronta con urgenze nuove. Come ricordava Hannah Arendt nel suo classico The Human Condition, la politica nasce laddove gli esseri umani si riuniscono per discutere e agire insieme. Tuttavia, nel contesto attuale, segnato dalla diffusione della "connessione senza incontro" (Bauman), le piazze sembrano aver perso quel ruolo originario di crocevia di scambio e conflitto. Ed è su questo svuotamento, fisico e simbolico, che Barbera si concentra, analizzandone le radici storiche e le manifestazioni contemporanee.
L’assenza come segno dei tempi
Le piazze vuote non rappresentano solo un fenomeno architettonico o urbanistico: sono il sintomo di un più ampio processo di disgregazione del tessuto civico. Barbera legge questa assenza attraverso le lenti del capitalismo avanzato, che tende a trasformare i luoghi pubblici in spazi di consumo, erodendo progressivamente la loro funzione aggregativa. Qui l’autore sembra riecheggiare le tesi di David Harvey, secondo cui la città è sempre più governata dalle logiche del mercato, mentre la politica si ritrae in spazi privatizzati o virtuali.
Con una prosa limpida e penetrante, Barbera descrive come la "piazza" rappresenti sempre più una metafora della marginalità politica. La virtualizzazione delle relazioni umane, amplificata dalla diffusione delle piattaforme digitali, contribuisce a questo processo. Eppure, il libro non si limita a una diagnosi pessimistica: è, al contrario, un invito a riscoprire il potenziale trasformativo degli spazi pubblici.
Ritrovare gli spazi della politica
Se il problema è l'assenza, la soluzione risiede nella possibilità di un ritorno. Barbera delinea una proposta di ricostruzione che attinge a esperienze storiche e contemporanee, dalle assemblee popolari del passato alle pratiche più recenti di urbanismo tattico. La piazza, per Barbera, può tornare a essere uno spazio di incontro reale, in cui il corpo collettivo riprende forma attraverso l’interazione fisica e il confronto diretto. In questo, il saggio richiama implicitamente le teorie di Henri Lefebvre, che identificava nel diritto alla città una dimensione fondativa del cambiamento sociale.
La proposta di Barbera non è astratta né utopica. L’autore si sofferma su esperienze locali, spesso invisibili ai grandi discorsi, che testimoniano una resistenza quotidiana alla spoliazione degli spazi pubblici. Sono esempi di una cittadinanza attiva che, pur frammentata, cerca di ricucire i legami tra il luogo e il senso di appartenenza collettiva.
Una riflessione per il nostro tempo
Il merito principale del saggio risiede nella capacità di intrecciare la narrazione teorica con uno sguardo critico sul presente, evitando sia la nostalgia paralizzante sia l’ingenuità ottimistica. Barbera non si limita a denunciare la crisi, ma traccia con cura i contorni di una possibile rinascita. La sua scrittura, rigorosa e al tempo stesso accessibile, riesce a coinvolgere lettori di diversa estrazione, stimolando una riflessione profonda sulla necessità di "abitare" di nuovo gli spazi comuni. La politica, privata di un luogo concreto in cui manifestarsi, rischia di ridursi a un simulacro.
In un’epoca in cui il digitale rischia di inghiottire la dimensione fisica delle relazioni umane, Le piazze vuote ci ricorda che è solo nel confronto diretto, nel "fare spazio" insieme, che la politica può tornare a essere ciò che era: un'arte collettiva.