C'era una volta "Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino"

Un doculibro, un viaggio nella tossicodipendenza di Berlino negli anni '70, "Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino" di Christiane F. (1978) merita la fatica di essere rispolverato dagli scaffali, riletto e proposto a chi non lo ha ancora letto. In esso, tra le righe, uno spaccato della società in una Berlino dell'Ovest, pre-caduta del Muro, che progressivamente rosicchiava spazi umani alla popolazione venuta in città dalle campagne. In cerca di fortuna. Per realizzare i propri sogni.
In una città che assumeva sempre di più un vestito di produzione anziché di bellezza esistenziale. Di umanità. Un contesto sordo alle esigenze dei bambini e non rispondente alle aspettative degli adulti. Chiamati a crescere e a lasciare inascoltato quanto desiderato più in fretta possibile. Nelle oltre 300 pagine è documentata la questione dell'eroina e del ricorso ad essa come strada prima di omologazione e accettazione e poi di fuga da un tunnel senza via d'uscita.
Da una quotidianità dentro palazzi dove non si è solo numeri ma si arriva ad essere invisibili, vittime delle proprie frustrazioni o di violenze dei propri familiari. Da una gabbia ad un'altra, come scatole cinesi. Dalla quotidianità alienante alla dipendenza con la scoperta ed il terrore per la 'rota' (crisi d'astinenza) e la corsa contro il tempo per procurarsi soldi, quaranta marchi per un quartino, in ogni modo. Come se la protagonista si trovasse in un vortice che inghiottisce tutto.
Lasciando attimi di speranza per una soluzione che, in un continuo aggrovigliarsi di bugie dette a sé o agli altri, si allontana sempre di più. Perché se è possibile fuggire da un istituto o da un luogo nel quale si è stati rinchiusi, è invece impossibile arrestare o scendere vivi da quel treno in corsa chiamato vita. E neppure chiudere l'unica via di comunicazione tra quel luogo nel quale rifugiarsi e il resto del mondo.

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