cultura

"Ogni parola è una storia" - 9

mercoledì 29 giugno 2022

NEBBIA
di Emma Burli, classe 2S3
Racconto vincitore del Premio d’Istituto, assegnato dalla giuria dei docenti dell’IISST Majorana-Maitani.
Parola-scintilla: Nebbia
Illustrazione di Viola Caponeri
 
Il tempo fuori quel giorno era come al solito. Erano solo le sei di mattina e Iris, appoggiata alla ringhiera metallica del suo balconcino, stava bevendo il caffè dalla sua solita tazzina nera scheggiata. Fece una panoramica di ciò che aveva intorno come ogni mattina: lontano, proprio davanti i suoi occhi, c’erano degli alti condomini come il suo; notò che in tre anni che viveva là, il palazzo di destra era rimasto dello stesso scrostato color pesca. Guardando in basso c’era ancora la via sbiadita e disseminata dai rifiuti di sempre; vicino ad un lampione c’era un cartone della pizza aperto, dentro aveva ancora quattro fette, forse cinque, difficile da dire dato la lontananza dell’ottavo piano dalla strada.

Come ultima cosa guardò su: il tempo era lo stesso, niente pioggia, niente sole. Anche quel giorno ci sarebbe stata la solita nebbia di sempre. Rientrò in casa, si doveva preparare per andare a lavoro. Si mise le scarpe da ginnastica, pantaloni neri e si ricordò di mettere il grembiule nello zaino. Alcuni a lavoro trovavano strano che una ragazza di soli ventidue anni avesse voglia di lavorare così tanto tutti i giorni e che non si prendesse mai un giorno libero, nemmeno la domenica. La sua però non era voglia di lavorare, tantomeno senso del dovere, semplicemente non le risultava faticoso lavorare lì al bar.
 
Come ogni giorno squadrò il bar in cerca di qualche eventuale cambiamento, ma come ogni giorno non trovò nulla di nuovo: l’insegna ondeggiante di legno vecchio a forma rettangolare era sempre là. Sul legno chiaro di betulla spiccava in stampatello maiuscolo il marrone scuro delle lettere dipinte che formavano la scritta “BAR”. Sì, non era un nome particolarmente creativo, ma l’insegna era antica quindi era stato deciso di non cambiarla, anche se ormai era parecchio messa male. Il bar era piuttosto piccolo, ma c’era sempre tantissima gente, forse perché trasmetteva tranquillità. Era pieno di libri che si potevano sfogliare mentre si beveva un caffè o si mangiava un panino.

Iris entrò facendo risuonare il campanello attaccato alla cima della porta, un rumore acuto ma non fastidioso, come il cinguettio di un pettirosso appena uscito dal guscio. Fece scivolare le lunghe dita pallide sopra il bancone lucidato da poco, anch’esso fatto di betulla. Dentro, affaccendati nel capovolgere le sedie lasciate in quel modo la sera prima, c’erano i suoi colleghi: un ragazzo dal viso gentile ma con gli occhi duri, una ragazza con i capelli biondi come il malto di una birra trasparente al sole, e un altro uomo, più grande rispetto agli altri, lo si capiva dalla barba rasata in modo approssimativo a dagli sporadici capelli bianchi nella sua chioma di carbone.

Al rumore della campanellina, la ragazza bionda si girò verso la porta e con un sorriso tra il sincero e il tirato esclamò: “Buongiorno Iris!”. Iris rispose con un cenno cordiale della testa. Sapeva perfettamente i nomi dei suoi colleghi ma non li considerava importanti, quindi non li usava.
Si posizionò dietro il bancone, tirò fuori il grembiule dallo zaino e se lo legò in vita, dopodiché si tolse l’elastico azzurro dal polso e si legò i capelli in una stretta coda di cavallo. I suoi capelli erano ordinari: di media lunghezza e castano chiaro. In verità tutto in lei era ordinario: occhi marrone chiaro, che riprendevano il colore dei capelli, una bocca piccola e rosea, un’altezza media, non troppo alta da sbattere la testa sul tettuccio quando si entra in macchina, ma non troppo bassa da non arrivare agli ultimi scaffali.

Iris guardò in direzione della vetrata che dava verso l’esterno; lì il cielo era blindato, i raggi di sole ancora intrappolati dietro le nuvole. A quanto pare non si era sbagliata. Quel giorno, c’era ancora la solita nebbia. Nebbia. La maggior parte delle persone aspetta, pazientemente o meno, che dalla nebbia spunti il sole. Una massa rovente senza la quale la Terra ruoterebbe intorno al nulla in un universo buio. Il Sole però non è solo una stella a 150 milioni di chilometri distante da noi, no. Il sole è piccole cose, piccoli frammenti di felicità quasi impercettibili: un bacio caldo sulla fronte di un bambino da parte della madre che, prima di andare a dormire, gli rimbocca le coperte e gli canta, con una voce fatta di miele e sonno, una ninna nanna, una parola gentile da uno sconosciuto, una partita di pallavolo vinta nella sudata palestra di scuola, una barzelletta, il primo amore, gli amori seguenti.

Il sole riscalda dall’interno, guarendo e asciugando le ferite trasformandole in cicatrici. Il sole strappa via la nebbia di mezzo, ci raggiunge e noi ci fondiamo con lui, crogiolandoci dentro per un tempo che può durare un minuto o un’eternità, e, quando infine scompare dietro quelle nuvole grigiastre, rimane incollata sulla pelle quell’essenziale sensazione di tepore. Iris non aveva il sole. Non l’aveva mai visto. Mai una volta in vita sua.
Era intelligente; quando andava alle superiori era tra le più brave, in fisica soprattutto, e i professori, tutti soddisfatti e compiaciuti, non la smettevano un attimo di cantilenarle nelle orecchie quali università avrebbe dovuto prendere in futuro e quali no, pregandola indirettamente di non abbandonare gli studi.

Lei annuiva con rispetto, accennava uno sguardo che veniva scambiato per approvazione e poi, dopo aver preso il massimo dei voti all’esame di maturità, non aprì più un libro di testo in vita sua. Non che fosse arrogante, e neppure timorosa di fallire. No, niente del genere. Semplicemente non le interessava. In realtà non le interessava niente; non in modo menefreghista o meschino, era sempre piena di rispetto per tutti; ma non aveva nessuna azione, cosa o persona che riuscisse a darle gioia. A darle un po’ di sole. Mentre tutti rimanevano estasiati nell’assistere allo spuntare di quella mistica palla di fuoco nascosta in principio da una fitta foschia, lei rimaneva ferma ad aspettare, guardando da una vita intera lo stesso identico paesaggio: la nebbia.

Niente sole. Ma nemmeno tempeste. Non si arrabbiava, non trovava il bisogno di farlo, perché avrebbe dovuto? Non aveva mai lo stomaco stretto dall’ansia quando qualcosa non andava come stabilito e mai una volta in vita sua aveva avuto un cuore spezzato. Tuttavia non soffriva per la monotonia del suo panorama, come poteva? Non puoi spiegare le sfumature cristalline di un torrente a un cieco, così come non puoi descrivere la vita a qualcuno che non l’ha mai vissuta. Nonostante ciò, vedeva qualcosa negli occhi delle altre persone, qualcosa che non riusciva a scorgere, a decifrare. Sapeva che c’era qualcosa di più. Non che li invidiasse, solo che la incuriosiva un po’, neanche tanto però.
 
Come al solito Iris rimase fino all’ora di chiusura. Era stata una giornata che si potrebbe definire pesante; un via vai di clienti, alcuni frettolosi con nessuna intenzione di perdere tempo, altri malinconici. I malinconici erano i suoi preferiti. Si sedevano a un tavolo singolo vicino alla vetrata, scrutando annoiati i passanti e guardando con gli occhi svuotati il cielo, sperando sommessamente in una svolta, una qualsiasi. “Noi per oggi abbiamo finito” esordì il ragazzo con gli occhi duri mentre si incamminava verso l’uscita accompagnato dalla ragazza con i capelli biondi. Iris continuò a pulire dal tavolo le briciole di quello che una volta era un panino al prosciutto e, senza alzare lo sguardo, disse: “Va bene, qui finisco io. Ci vediamo domani.”

“Ora andiamo in un localino tranquillo, per riposarci un po’ e magari bere qualcosa di fresco” squittì la ragazza, “Vuoi unirti a noi?”. Appena posto l’invito, le orecchie della ragazza presero un colore strano, tendente al rosso mentre il ragazzo alzò gli occhi al soffitto assumendo una smorfia particolare, era come esasperato. Iris fece finta di pensarci su. “No grazie”, disse dopo qualche secondo “Sono molto stanca, magari un’altra volta”. Nessuna reazione, non erano sorpresi del rifiuto. “Sì, come no…” bofonchiò il ragazzo mentre afferrava sgraziatamente la maniglia della porta per andarsene. La ragazza invece era ancora ferma, sospirò leggermente, quasi non si sentì. “Certo, sarà per un’altra volta”, si girò e varcò la porta che intanto era stata aperta scatenando il solito gentile trillo del campanello. Iris finì di pulire con calma, dopodiché andò a casa.
 
Quando uscì dalla doccia era notte inoltrata, forse l’una. Si mise l’accappatoio, era uno nuovo, lo aveva comprato da poco, tutto giallo e molto caldo, era in offerta. Si strizzò i capelli bagnati, lasciando precipitare alcune gocce d’acqua sul tappeto soffice. Anche quello era nuovo, sempre in offerta. Uscì dal bagno, sprigionando la nuvola di vapore che vi era intrappolata, attraversò il modesto salotto e passò davanti il balconcino per raggiungere la cucina. Voleva prepararsi una camomilla, lo faceva tutte le sere prima di andare a dormire. Si fermò di colpo sulla soglia. Fece un piccolo passo indietro. “E se…” mormorò a sé stessa. Fece un altro passo indietro e si girò. Aprì la finestra e si piazzò nel mezzo del balconcino. Non era tanto grande, saranno stati al massimo tre metri quadrati, forse neanche.

Faceva freddo e il vento era prepotente, faceva scontrare le ciocche di capelli bagnate fra di loro e frusciare il nuovo accappatoio giallo. Iris era a piedi nudi, sentiva la pietra gelida sotto di sé insinuarsi nelle sue vene. La persiana sbatteva potente contro la sua gemella. Iris fece un respiro, non profondo, e con la luce fioca del lampione giù in strada riuscì a scorgere il palazzo scrostato color pesca. Guardò in basso: il cartone della pizza stava ancora lì, ma di fette erano rimaste solo due. Fece un altro passo avanti. Arrivò alla ringhiera metallica, le arrivava all’altezza dell’ombelico ed era molto spessa. Ci pensò. Si decise.

Aiutandosi con una mano riuscì a mettere un piede sulla ringhiera e poi goffamente mise anche l’altro. Era alto lassù, lo aveva sempre saputo ma solo ora se ne rendeva conto. Il vento sbatteva sul ferro della ringhiera che dopo ogni colpo sibilava. Le persiane facevano ancora più rumore. Alzò un piede e rimase in equilibrio con l’altro, dritta in mezzo al caos. Non era spaventata, non era nemmeno in preda a una specie di raptus. Era incuriosita. Ma neanche tanto. Fece volteggiare il piede già in aria sbilanciandosi volontariamente da tutte le parti. Destra, sinistra.  Avanti, indietro. “E se togliessi anche l’altro piede?” si chiese. Stavolta ad alta voce.

Ci pensò. Si decise. Non chiuse gli occhi, voleva vedere esattamente ciò che sarebbe successo. Si sbilanciò un’ultima volta verso destra rimanendo salda con un piede alla ringhiera. “E’ ora” si disse. Guardò dritto davanti a sé. Fece per andare in avanti. Sentì un rumore. Si fermò di colpo. Il rumore proveniva da sotto. Guardò giù. Un gatto. Stava mangiando un pezzo di pizza dal cartone ma qualcosa era andato storto: una fetta di salame piccante gli era finito in testa, in mezzo alle orecchie, e non riusciva a scrollarselo di dosso, quindi miagolava frustrato cercando di toglierlo dandosi delle zampate sul muso. Iris lo guardò. Aveva gli occhi verdi. “E’ un gatto stupido” annotò mentalmente.

Mise sulla ringhiera il piede che stava ancora in aria e con cautela scese sul balconcino. Bloccò le persiane che per tutto quel tempo avevano continuato a fare un baccano infernale. Si girò un’ultima volta verso il cielo: era nero ma si poteva notare una leggera patina grigiastra che lo ricopriva. Il giorno dopo ci sarebbe stata di nuovo la nebbia. Come al solito. Il bar era di nuovo pieno e nessuno dei colleghi di Iris poteva immaginare cosa fosse quasi successo la notte passata. A lei non importava. Non si sentiva in colpa per quello che aveva tentato di fare. Nemmeno sorpresa dell’assenza di qualsiasi senso di colpa.

Era l’ora di punta e c’erano molti gruppi di amici che ridevano e si davano pacche sulle spalle. I suoi colleghi non facevano altro che correre da una parte all’altra per non far aspettare i clienti, Iris invece faceva con calma. Stava guardando il cielo: caldo ma ancora oscurato. “Iris!” sbraitò il collega brizzolato, “Tre caffè al tavolo sette. Muoviti!”. Era esasperato ed era stato scortese, ma Iris lo guardò e annuì gentilmente. Preparò i tre caffè in modo veloce e pulito, li mise su un vassoio circolare di latta e aggiunse diversi tipi di bustine di zucchero, dei tovagliolini e tre bicchieri d’acqua, dopodiché si diresse verso il tavolo indicato.

Il tavolo sette era tra la vetrata che si affacciava sull’esterno e la porta e, per arrivarci bisognava fare uno slalom tra un milione di sgabelli.
Era quasi arrivata al tavolo, stava proprio davanti alla porta, quando sentì il tintinnio del campanellino. Si girò per accogliere con parole affabili i nuovi clienti, ma l’unica cosa che riuscì a vedere prima di essere travolta fu una figura viola correre verso di lei. Ci fu un suono freddo, tanti suoni freddi. Le tazzine e i bicchieri si erano frantumati a terra, o almeno così pensò Iris, dato che era stata spinta via non aveva visto la scena.
Era sdraiata vicino al tavolo nove e aveva un gran mal di schiena. Le vibrava tutta la spina dorsale, aveva urtato uno sgabello durante la caduta.

Si alzò lentamente e realizzò che l’intero bar si era ammutolito. Raddrizzò la schiena massaggiandola leggermente con le mani e mentre lo faceva realizzò un’altra cosa: non stavano guardando lei. Non che le dispiacesse, ma si aspettava tutti gli occhi addosso dopo una caduta del genere.
Seguì gli sguardi dei clienti e finì a guardare la figura davanti a sé, lontana da lei di due tavoli. Era una ragazza mora, occhi verdi, di una sfumatura diversa da quelli del gatto della notte prima. Aveva moltissimi orecchini, file infinite su tutte e due le orecchie e aveva una maglietta viola acceso, di una o due taglie in più.

Appena Iris la vide capì perché la stavano guardando tutti: era zuppa di acqua e caffè. Sul viso, sui capelli e sui vestiti. Se ne restava dritta un po’ imbarazzata lanciando degli sguardi agli amici dietro di lei che intanto, non riuscendo più a trattenersi, stavano ridendo a crepapelle. Anche il resto del bar era divertito, ma nessuno, o quasi nessuno, osava ridere apertamente. Quella scena durò poco dato che, nel giro di cinque secondi, ognuno era tornato alle proprie conversazioni e il brusio generale di sempre si attivò di nuovo. Iris s’incamminò verso la ragazza con gli occhi verdi per chiedere rispettosamente scusa come da brava cameriera. Erano faccia a faccia e Iris fece per parlare, ma venne interrotta.

“Scusa” disse la ragazza in tono gentile mentre cercava inutilmente di togliersi un po’ di caffè dalla faccia, “Sono proprio scema. Lascia che ti aiuti.” Così dicendo si piegò per recuperare i cocci e il vassoio caduti, ma mentre lo faceva, scivolò su una piccola pozza d’acqua che si era formata sul pavimento di legno e cadde. A quel punto Iris era immobile, non sapeva cosa fare. Immaginava che si sarebbe imbarazzata, magari anche arrabbiata, ma la ragazza era sdraiata a terra appoggiata sui gomiti e sembrava proprio che non avesse alcuna intenzione di rialzarsi. Guardò Iris.

La bocca si distese e un sorriso si formò sul viso della ragazza con gli occhi verdi, poi una risata. Una bella risata. La più bella mai sentita.
Iris la guardò di nuovo: gli occhi le erano diventati brillanti, si teneva la pancia per il troppo ridere, la faccia era rivolta verso il soffitto e all’altezza del naso diventò un po’ rossa. In quel momento Iris sentì un tepore, uno strano caldo, per nulla opprimente, un caldo rassicurante. Al di fuori della vetrata il cielo si aprì e un piccolo raggio di sole inondò il locale. Si era sbagliata a quanto pare; quel giorno niente nebbia. Iris sorrise. Rise. Non aveva mai sentito il suono della sua risata. E mentre rideva, il sole la scaldava.

"Ogni parola è una storia" - 8