Il Quartiere Medievale di Orvieto regala nuove sensazionali scoperte
Nella continua opera di sorveglianza che la Soprintendenza dell’Umbria svolge quotidianamente nei cantieri edili, succede con frequenza d’imbattersi in strutture antiche perfettamente conservate che restituiscono alla comunità una memoria significativa del proprio passato, rinfrancandone l’identità e l’orgoglio di appartenenza. Orvieto vive in questo periodo un risveglio culturale del quartiere medievale, con scoperte che si accavallano nei cantieri privati sia di cittadini che di persone di diversa provenienza la cui scelta di una “vita rupestre”, gravata da dispendiosi sforzi economici sostenuti nelle opere si ristrutturazione dei beni immobili, è tuttavia ripagata dal contenuto di questi “secolari cassetti” che hanno il potere di musealizzare il vissuto quotidiano.
Nel mese di Ottobre 2021, durante la pulizia di una cantina privata in via Pianzola, è stata realizzata la scoperta di un “butto” medievale perfettamente integro che ha restituito “brandelli” di vita quotidiana del XIV sec. E’ noto come i “butti” siano stati concepiti fin dal XIII sec. come spazi scavati sfruttando il blocco tufaceo che sostiene la città, per accumulare la spazzatura proveniente dai piani superiori delle abitazioni, evitando che questa andasse dispersa nei tortuosi vicoli. Di diverse forme, dimensioni e profondità rappresentano da sempre anche uno scrigno di reperti ceramici che, se rinvenuti non alterati da azioni clandestine, restituiscono una perfetta sequenza cronologica del loro utilizzo, permettendoci di ricostruire il vissuto quotidiano, le tendenze artistiche dei ceramisti e i gusti delle diverse committenze orvietane.
Da una relazione manoscritta di Pericle Perali risalente al 1908, si legge di come egli avesse acquisito notizie in merito all’origine sulla ricerca di ceramiche orvietane, rinvenute nei “butti”, che fin dalla metà del XIX sec. avevano procurato in città un ampio giro di affari ed eccellenti guadagni come pure: «hanno disperso irreparabilmente forse numerosissimi e preziosi esemplari delle ceramiche medioevali di fabbrica orvietana. L’antiquario Fuschini, così esplicitamente mi narrò, aveva acquistato alla morte del canonico Girolamo Saracinelli molte carte antiche e disegni appartenuti a quel sacerdote artista discendente da antica e nobilissima famiglia orvietana. Un prete forestiero un francese, mi disse il Fuschini, sfogliando quelle carte e quei disegni una ne scelse scritta in latino, offrendone una discreta somma.
Il Fuschini gliela cedette con la condizione che l’acquirente dicesse a lui, digiuno di lingua latina, il contenuto della carta. E, sempre stando alla narrazione del Fuschini, quel prete francese avrebbe detto che la carta acquistata da lui era la copia d’una bolla di Bonifacio VIII emanata nel 1299 per la quale si vietava agli orvietani di gettare le immondizie fuori delle case sulla strada, obbligandoli a scavare nell’interno delle case stesse o nell’orto un buco profondo dentro il quale ben coperto e chiuso, perché non ne venissero esalazioni, avrebbero gettato i resti delle vivande e tutte le altre immondizie. Il Fuschini mi aggiunse che incominciò subito le ricerche nella speranza di trovare... qualche cucchiaio o qualche forchetta... d’oro caduta in qualcuno di questi butti e da due anni a questa parte egli ed altri molti hanno trovato effettivamente dell’oro in forma di frammenti più o meno completi di ceramiche medievali».
Della bolla pontificia non se ne possiede oggi l’effettivo riscontro se non sulle basi di tale racconto che, in veste romanzata, suggerisce quel parziale alone veritiero riguardo il secolo (XIII) in cui i “butti” iniziano a comparire per rispondere a un problema ancora oggi in auge: lo smaltimento dei rifiuti, al fine di evitare il diffondersi di pestilenze e flagelli sanitari. L’ esistenza di queste antiche “pattumiere” è oggi comprovata sulla base di documenti certi risalenti al 1324, anno in cui vengono emanate le prime norme igieniche citate dalla Carta del Popolo di Orvieto, anche se è certo ritenere come tali discariche possano risalire fin al secolo precedente, vista l’emanazione di norme simili nella vicina città di Todi (1275), come anche nei vicini centri dell’Alto Lazio e della Media Valle Tiberina. I recenti scavi intrapresi nel 2017-2019, negli ambienti antistati al celebre Pozzo della Cava, stanno restituendo in tal senso ceramica duecentesca negli strati più antichi che “parlano” del loro primo utilizzo.
Tali scrigni sono ora tutelati dagli organi di Stato mediante azioni di sorveglianza continua nelle numerose pratiche edili che interessano in città edifici sia pubblici che privati, evitando quegli errori di valutazione che in passato hanno portato irreparabilmente alla dispersione del patrimonio orvietano. Carlo Franci, presidente dell’Opera del Duomo e Ispettore ai Monumenti e Scavi durante l’ultimo ventennio del XIX sec., aveva presentato alla Deputazione dell’Opera del Duomo un progetto di tutela, per evitare la dispersione dei reperti divenuta sempre più pressante, proponendo la raccolta del patrimonio storico-artistico della città e del territorio nel Museo dell’Opera del Duomo, in quegli anni sottoposto ad un nuovo allestimento. Il moltiplicarsi degli scavi clandestini produsse l’arrivo in città di connoisseurs di archeologia e noti collezionisti interessati all’acquisto di quelle impareggiabili emanazioni artistiche che una sentenza giudiziaria promulgata allora dal Pretore di Orvieto permetteva di invalidare definendoli alla stregua di: “cocci rotti”, legalizzando a tutti gli effetti le azioni di scavo intraprese da singoli privati, come anche da cittadini riuniti in secretati accordi di società a delinquere.
Il ritrovamento di un “butto” ben conservato e scrupolosamente indagato rappresenta oggi quindi un patrimonio inestimabile per la città. Il secolare contenuto ha restituito: resti osteologici relativi agli scarti alimentari, frammenti relativi a bicchieri di vetro con decorazioni embricate estruse, pesi ponderali in tufo e basalto, catini-colatori in ceramica, fusaiole in ceramica, strumenti in ferro, frammenti di maiolica arcaica decorata in verde ramina e bruno manganese , frammenti di boccali “truffa” a corpo globulare e catini ad ampia tesa.
Tra le ceramiche spiccano tre contenitori in terracotta non invetriata ritrovati perfettamente integri: un boccale globulare monoansato con presa nastriforme, un altro globulare a doppia presa nastriforme e un boccale “panata” con beccuccio a imbuto. La struttura del butto è anch’essa perfettamente conservata, non solo nel perimetro di forma ellittica ma anche nella rampa-caditoio impostata sulla muratura perimetrale dell’edificio in funzione di collegamento con i piani superiori.
Oltre settecento anni di attesa dunque per tornare alla luce con tutto il suo contenuto scrupolosamente indagato, il quale conferma quanto in passato già ipotizzato, ma nella maggior parte dei casi mai rinvenuto integro o parzialmente “inquinato” da azioni moderne ad opera di clandestini. Ulteriori ricerche sono ancora in corso per accertare la presenza di altre strutture nella speranza di ricostruire le fasi evolutive dell’edificio sorto nel principale apparato culturale cittadino.