cultura

"Una montagna di zucchero e fiele". In libreria la storia di Attilio Scarponi

sabato 4 settembre 2021
di Davide Pompei

Dietro all'insegna al neon dismessa, c'è la storia di una vita. Dura, come la prima infanzia contadina nella contrada del Fossatello. Dolce, come le soddisfazioni che gli ha regalato quello storico bar pasticceria di Piazza del Popolo che per quarant'anni ha portato il suo nome. Più che un mestiere, un'arte in continuo divenire che ha accompagnato Attilio Scarponi dalla prima adolescenza alla pensione.

Ora che di primavere ne ha salutate 81, ha affidato al libro autobiografico "Una montagna di zucchero e fiele", in distribuzione nazionale per Intermedia Edizioni, a partire da lunedì 6 settembre, i suoi ricordi. Un diario – autentico e sentito – dal 1940, anno della sua nascita, al 2015, quando la sua attività ha definitivamente chiuso i battenti, scritto con stile naïf, come la sua pittura.

Semplice e diretto, il linguaggio non indugia in ricercatezze verbali, né cade in parafrasi letterarie che non gli appartengono. "La freschezza e la bellezza di questo libro – sottolinea l'editore – è proprio nella presa diretta, nella crudezza dei racconti di un’infanzia patita più del dovuto, accompagnata da un’onesta povertà e da un’educazione spartana.

La storia privata del protagonista viaggia parallela con quella del Paese, piegato da una guerra perduta, da un secondo dopoguerra fatto di stenti, fino al boom economico degli anni '60. E come la grande Storia, anche la storia privata dell’autore, dopo tante peripezie, volge al meglio. Un diario di sofferenze e duro lavoro, coronato da un inatteso lieto fine".


"Premio Speciale alla Carriera" conferito da CNA nel 2017

Questa l'introduzione del libro nel quale Attilio Scarponi rievoca la sua esperienza. Quasi una parabola di chi, con umilità, grandi sacrifici e determinazione raggiunge la vetta dell'affermazione personale:

"Mi chiamo Attilio. Attilio Scarponi. Sono nato il 20 settembre 1940, da umili e poverissimi genitori, in una casetta di due stanze. Una al piano terra e l’altra sopra, alla quale si accedeva con una scala di legno attraverso una botola tagliata nel soffitto. Una casetta tirata su tra querce e ulivi, nelle campagne dell’Orvietano.

A 5 anni mi fu insegnato a fare cose adeguate alla mia età, come badare alle galline che non sconfinassero dallo spazio consentito, procurare l’erba per gli animali da cortile, dondolare una rudimentale culla quando mio fratello piangeva, raccogliere spighe di grano rimaste nei campi mietuti. Il tutto camminando a piedi scalzi da maggio a settembre.

Avevo quasi 7 anni quando mio padre mi affidò il compito di riempire d’acqua un tino di legno da 25 quintali. L’acqua andavo a prenderla alla sorgente, distante da casa circa 200 metri, con un secchiello di latta da cinque litri. Alla fine ho calcolato di aver trasportato in tre mesi tra i 100 e i 110 quintali d’acqua facendo circa 1.200 viaggi, per un totale di 4.800 chilometri, oltre cinque chilometri al giorno.

Pochi giorni dopo iniziai le elementari. Terminata la quinta fui mandato in seminario ad Orvieto. Con 4.000 lire al mese mi facevano studiare e mi davano da mangiare e da dormire. Non mi trovai bene. Resistetti tre anni poi, in una notte di luna piena, scappai dalla porta del campo sportivo e tornai a casa. Non volli più studiare. A 14 anni fui costretto a procurarmi da vivere.

Iniziai andando nei boschi a raccogliere carbonella, che rivendevo a circa 20 lire a chilo. Quando non c’era più carbonella, mi massacravo mani e braccia tra gli spini dei ginepri per raccogliere le bacche nere che vendevo a 400, 500 lire a chilo.

A 15 anni, da ottobre a marzo, andavo a tagliare il bosco con mio padre. Era molto faticoso, a pranzo mangiavo quello che la sera prima mia madre aveva potuto preparare: pane e patate, fagioli o pastasciutta. Tutta roba fredda. La sera mi mettevo a dormire in un letto che al posto del materasso aveva un saccone pieno di foglie secche di granturco. La domenica servivo messa nella chiesa accanto alla scuola.

Appena pranzato dovevo sempre andare a procurare erba per gli animali. Decisi di scappare anche da quella vita dura. Con l’aiuto di un parente trovai lavoro in una falegnameria ad Orvieto. Mi pagavano pochissimo e mi facevano schiattare di fatica. Da lì andai in una pasticceria. Migliorai poco, ma il lavoro mi piaceva. A 17 anni, ospite di una zia, andai a lavorare a Roma in una grande pasticceria. Lì mi trovavo bene, ma guadagnavo sempre poco.

La sera, per non spendere 15 lire per il biglietto dell’autobus, mi facevo più di cinque chilometri a piedi. Strada facendo raccoglievo le cicche di sigarette. Ero sempre disperato, senza una lira. Il giorno pranzavo con un po’ di scarti che di nascosto mangiavo in pasticceria: quando uscivo dal lavoro, comperavo 10 lire di caldarroste (5 o 6 castagne) e 10 lire di lupini. Per nove mesi cenai con mezzo litro di latte inzuppandoci una ciriola da 100 grammi.

Ero sempre in cerca di guadagnare e imparare di più, per questo spesso cambiavo posto. Nel giro di pochi anni, da Roma mi trasferii a Palermo, poi Milano, Bologna, Anzio. Mi sposai, feci il soldato, avemmo un figlio. Tornai a Roma, poi rientrai con loro di nuovo a Orvieto andando a lavorare nella stessa pasticceria dove avevo iniziato come apprendista. Lì rimasi cinque anni, poi mi misi in proprio. Aprii un bel bar pasticceria, gelateria e cioccolateria, dando lavoro a undici persone. Sono rimasto lì, lavorando con moglie e figli, per oltre quarant’anni facendo una piccola fortuna".