"Antichi strumenti di tortura e pena di morte", ricordare per riflettere sul presente

Un messaggio che arriva forte e chiaro quello degli “Antichi strumenti di tortura e pena di morte” di Gubbio. Un messaggio che viene incorniciato dall’imponenza del palazzo dei Consoli e che prima di tutto si fa largo nell’immaginario di chi si trova nel susseguirsi di quegli arnesi e congegni che nella storia sono stati ideati e quindi utilizzati per far confessare, per punire o per eliminare. Un messaggio che ogni visitatore non ascolta solo nel silenzio introspettivo, attingendo dalle proprie conoscenze e dalla propria sensibilità, ma che trova forma esplicita, scritta bianco su nero nella cartellonistica di presentazione.
In sintesi, si tratta di una mostra che dà luce al passato per dire no alla tortura e alla pena di morte di oggi e per aggiungere consapevolezza sul fatto che le libertà e i diritti esistenti non devono essere considerati come dati, vanno difesi anche attraverso l’approfondimento e il confronto in un percorso di consapevolezza, superando una chiave di lettura semplicistica che affonda le proprie radici sulla paura della diversità per imporre un’esigenza di omologazione.
Chi decide di salire le scale del palazzo dei Consoli e si affaccia alla mostra che rimarrà aperta fino al primo maggio 2018, in taluni casi dopo aver aggiunto colorate pennellate di conoscenza grazie alla partecipazione ai vari eventi proposti dalla terza edizione del Festival del Medioevo che hanno animato fino a domenica scorsa la città dei Ceri, si trova a percorrere un cammino, che dall’alto della scalinata interna della sala dell’Arengo può essere colta nel suo insieme.
Nel cambio di prospettiva, rimane centrale a colpo d’occhio la ghigliottina, strumento di morte associato alla Rivoluzione francese. La pesante e scura lama si trova in una macchina di morte che dai curatori della mostra viene descritta del tutto identica a quella che venne eretta nella Place de Greve a Parigi il 4 aprile 1792. "Dopo la prima esecuzione - si legge nel pannello di presentazione - , ai danni di un ladro e predone di diligenza, la ghigliottina fu usata in un crescendo drammatico. Il 21 gennaio 1793 toccò al Re Luigi XVI e qualche mese più tardi a sua moglie, la Regina Maria Antonietta".
Intorno a questa, sono tanti gli strumenti - più o meno conosciuti - esposti nella sala: dagli aculei di un sarcofago dalle sembianze grottescamente femminili che richiama l’immagine della Vergine di Norimberga allo schiacciatesta, passando per strumenti che servivano per immobilizzare le vittime al fine di provocare atroci dolori fino a oggetti di uso comune come una botte, che rivisti per altri fini e quindi dotati di lame interne, potevano condurre alla morte.
Se da una parte c’era l’oscurità delle celle con massicci arnesi di prigionia, come il collare spinato con punte interne ed esterne, che ad ogni movimento del condannato legato al muro “erode fino all’osso la carne del collo, della mascella e delle spalle portando alla cancrena e alla setticemia”, c’era tutto un sistema di punizioni, anche mortali, pubbliche. Dove la cattiveria o la vendetta privata affiorava alla luce del sole e diventata parte della pena e ulteriore metodo di controllo sociale, come nel caso della gogna o delle maschere dell’infamia.
Maschere che raffigurano grottesche immagini, che molto spesso erano arricchite all’interno di congegni che tagliavano o mutilavano la lingua, per ridurre al silenzio. “Questo tipo di tortura - viene sottolineato nella spiegazione - , che ha assunto forme e tipologie molto varie, si usava per reprimere i non-conformisti ed i disubbidienti, ma soprattutto le donne “ribelli” in ambiente domestico”.
No alla tortura e alla pena di morte, ma anche a tutti quei trattamenti inumani e degradanti: è ciò che viene scandito a chiare lettere dalla mostra “in un momento in cui tornano in modo sinistro agli onori della cronaca quotidiana temi come l’antisemitismo, l’intolleranza, il razzismo, la violenza, la guerra, questo progetto, articolato secondo diverse iniziative culturali, rappresenta sicuramente un momento di riflessione, un invito a ricordare per non dimenticare”.

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