I ragionevoli dubbi riguardo la fusione lampo
Mi vedo costretto a scrivere per portare questa improvvisa accelerazione sulla fusione di Fabro, Ficulle, Montegabbione, Monteleone d'Orvieto e Parrano su un livello di analisi più profonda rispetto a quella che finora reputo pura propaganda calata dall'alto per un progetto che è oggetto di dibattito in sede politica da almeno 20 anni, senza però aver mai coinvolto attivamente gli abitanti e senza mai aver approfondito nei particolari i costi-benefici di una fusione amministrativa.
La proposta viene fatta passare come legittima anche perché è sponsorizzata da esponenti regionali, da organi sindacali e persino da un sottosegretario del Ministero dei trasporti: tutti si limitano a parlare pomposamente dell'ottima idea senza entrare nei dettagli.
Il mio ragionamento parte da ciò che è scritto sulla bozza di delibera (unico documento finora disponibile e ancora ufficioso) che si vuole approvare congiuntamente nei 5 consigli comunali prima della fine di gennaio.
Questo comunicato si attiene al principio di precauzione e si basa prima su considerazioni di carattere elettoral-politico, poi sui presunti vantaggi che si sono fatti passare come assoluti finora, portando all'attenzione i dubbi sull'effettivo riscontro e miglioramento che potranno ottenere tutti i cittadini da un'accorpamento che una volta avviato, non vedrà più un possibile ritorno alle condizioni di partenza.
Considerazioni politico-elettorali
Si può affermare che dal 2009 in poi l'alto orvietano ha visto 5 amministrazioni comunali governate dal PD (unico soggetto politico ad avere potere esecutivo anche negli anni precedenti) che potevano orientarsi da subito verso riforme e progetti condivisi, quale la fusione dei comuni.
Finora, al vero, ci sono stati tentativi di razionalizzazione che sono stati abbandonati (presumibilmente per logiche che vanno oltre l'interesse pubblico) che effettivamente avrebbero portato vantaggi economici, occupazionali e organizzativi non di poco conto.
Ad esempio il progetto per la gestione dei rifiuti solidi urbani, che dal 2012 avrebbe coinvolto 12 comuni orvietani per una popolazione di oltre 23.400 abitanti: lo studio di fattibilità commissionato dalle amministrazioni aveva evidenziato risparmi economici mediamente nell'ordine di alcune decine di migliaia di euro all'anno per ogni singolo comune. Non se ne è fatto niente, nonostante il lungo iter avviato e la spesa di più di € 20.000 totali per aver commissionato uno studio.
In altri settori quali quello del servizio idrico integrato non c'è mai stata volontà di unirsi per imporre dal basso una gestione virtuosa, come succede in realtà anche più piccole delle nostre. Adesso è già troppo tardi.
Sulla manutenzione delle strade ogni comune ha fatto di testa propria senza giungere ad un accordo.
Per i servizi di assistenza sociale e di sanità si fa riferimento da anni ad un esteso ambito territoriale che arriva ben oltre Orvieto.
I 5 sindaci PD che adesso si vogliono fondere dicono che la fusione è una scelta obbligata per garantire la sopravvivenza delle nostra realtà. In realtà esiste una scelta intermedia, cioè l'unione dei comuni, che accorperebbero servizi e uffici pur mantenendo ogni singola autonomia giuridica.
Sia per l'unione, che la potrebbe precedere, che per la fusione manca ed è mancata la partecipazione delle persone e delle aziende.
Proponendo la fusione con il referendum consultivo (cioè non vincolante) in caso di vittoria del NO la Regione potrebbe approvare a suo insindacabile giudizio la fusione sulla base delle delibere favorevoli dei 5 Consigli Comunali del 20 gennaio. Se passerà il SI', invece, i comuni verranno fusi irreversibilmente, senza possibilità di ritornare alla situazione precedente visto che la normativa non prevede questa possibilità.
All'interno del partito democratico "intercomunale" sono tutti d'accordo ora. Non scordiamoci che siamo già in periodo pre-elettorale. Forse perché hanno fatto già la conta dei voti per ogni singolo territorio e con l'eventuale unico comune sarebbe scongiurata ogni possibilità di perdere anche un solo "feudo" dei 5. Non è una considerazione campata per aria, bensì fondata sull'oggettivo malcontento che vola tra le opinioni della gente e che non sarà certamente passata inosservata a chi frequenta gli ambienti democratici.
Si vuole far passare l'idea che il progetto di fusione sia condiviso da tutti, in realtà si tratta di una volontà nata dentro le sezioni del partito democratico, senza che sia mai passato al vaglio di un minimo dibattito con le altre forze politiche e soprattutto senza mai aver interpellato in modo chiaro la popolazione, vera parte lesa di un'eventuale scelta di cui non si sanno precisamente i risvolti sul medio e lungo termine.
Ci si dimentica di dire, inoltre, che tra i sindaci proponenti c'è chi non si potrà ricandidare perché al secondo mandato, chi non lo vorrà essere rieletto, chi spinge per accentrare tutto sulla sua figura, magari per manie di grandezza che in un recente passato hanno visto progetti da milioni di euro volatilizzarsi perché insostenibili o semplicemente irrealizzabili.
Sta di fatto che una decisione che si è impennata all'insaputa dell'opinione pubblica potrebbe incidere sulla vita amministrativa della zona per i decenni a venire.
Comunque pare evidente che convocare una riunione con associazioni, amministratori e cittadini il 18 gennaio (a 2 giorni dai preventivati consigli comunali per l'indizione del referendum) è il segnale netto di una visione della politica volta ad imporre le proprie scelte senza un aperto confronto e delinea il volto di un'azione fatta a colpi di scarsa trasparenza, forzature e partecipazione praticamente nulla di attori quali gli abitanti, che diventano spettatori passivi di un processo che non sentono proprio.
Analisi dei vantaggi e dubbi in merito
La bozza di delibera congiunta è accompagnata dall'Allegato "A", ossia la Relazione di fattibilità per la fusione tra comuni, e dall'Allegato "B", che è semplicemente la cartografia con segnati i confini del nuovo comune.
La proposta di fusione si basa su una "relazione di fattibilità" che somiglia tanto ad un programma elettorale, privo di un qualsivoglia conto economico che dovrebbe analizzare nel dettaglio i capitoli di spesa, le eventuali minori/maggiori entrate e uscite.
In altre zone d'Italia dove hanno provato a fondere 2 o più comuni (non sempre è andata a buon fine) sono stati commissionati ad aziende o organi terzi studi di fattibilità seri (si trovano in internet) redatti in mesi di analisi realizzate con dovizia di particolari.
Non esiste un cronoprogramma presumibile delle tappe della fusione, la quale comporterebbe il commissariamento delle attuali amministrazioni, uno spostamento delle elezioni amministrative, quindi un iter lungo e con numerosi passaggi tra le varie istituzioni.
L'unico dato oggettivo nella relazione è il numero dei dipendenti ed il loro attuale ruolo ricoperto. Manca però la composizione dei nuovi uffici, delle nuove mansioni, con il numero preciso di responsabili e gli eventuali nuovi incarichi, senza sapere se ci saranno nuove assunzioni, trasferimenti o licenziamenti.
Mancano i dati sui risparmi dei cosiddetti costi della politica (indennità di carica, numero dei consiglieri, commissioni consiliari, ecc...).
Non è chiaro se la fusione porterà ad un adeguamento verso l'alto o verso il basso delle diverse tasse, aliquote, accise (aliquote IMU, Tares, IRPEF, ecc...). Tutto dovrà essere uniformato, ma necessariamente ci troveremo di fronte a situazioni di aumento della pressione fiscale per talune realtà.
I 5 sindaci parlano di trasferimenti statali certi pari a 5 milioni di euro come incentivo alla fusione. In realtà di sicuro non esiste nulla, infatti la Legge 135/2012 all'art. 20 dispone che "il contributo straordinario ai comuni che danno luogo alla fusione [...] è commisurato al 20% dei trasferimenti erariali attribuiti per l'anno 2010, nel limite degli stanziamenti finanziari previsti", quest'ultima frase sta a significare che se lo Stato stanziasse col passare degli anni meno soldi, al nuovo comune arriverebbero meno di 5 milioni previsti.
Facendo un rapido calcolo, poi, si evince che tale somma mediamente significa 100.000 € all'anno per comune, ossia una cifra abbastanza risibile (considerando le opportunità di finanziamenti a fondo perduto che le nostre amministrazioni spesso si sono fatte sfuggire negli anni).
Per di più non è stata definita la ripartizione dei trasferimenti tra i diversi municipi, ossia ci chiediamo: verranno divisi in base al numero di residenti, in base all'estensione territoriale degli ex comuni o verranno semplicemente divisi per 5?
E' vera la deroga al patto di stabilità per 2 anni, che però potrebbe avvenire anche con l'unione dei comuni
Quindi allo stato attuale non sappiamo quantificare i risparmi e quali spese si dovranno affrontare per la costruzione di una nuova sede municipale, per il trasferimento degli uffici, per redigere nuovi regolamenti, il nuovo statuto e un nuovo Piano Regolatore Generale e per tutti i passaggi burocratici del caso.
Un nuovo comune di 8.000 abitanti per quanto abbia "maggiore peso politico a livello regionale" è comunque ancora relativamente modesto (tra i 20 più grandi dell'Umbria su 88 che diverrebbero).
Con un comune più grande si andrà affievolendo la capacità di controllo che un cittadino di un piccolo comune può avere sull'attività amministrativa, pregio peculiare di realtà come le nostre.
Non esistono reali garanzie sul mantenimento a medio-lungo termine dei servizi essenziali (scuole, uffici pubblici, poste, banche...) nei centri che diverranno entità marginali.
L'abbandono di molte funzioni amministrative presenti da sempre nei 5 centri storici sede dei Municipi, già lasciati a sé stessi in questi decenni passati dalle attuali amministrazioni (esempio di ciò che potrà succedere è la condizione attuale di Carnaiola, una volta sede comunale ed adesso semplice frazione), finirà per abbassare gli indotti delle già poche e indebolite attività commerciali. I nuclei antichi verranno relegati definitivamente a centri periferici di un territorio che favorirà di fatto solo la realtà di Fabro Scalo.
Con la scusa di "efficienza ed efficacia della macchina amministrativa" si perderà il contatto con nuclei abitativi che diventeranno di fatto frazioni delle frazioni.
Altri problemi pratici non presi in considerazione e che chiedono risposte non ancora fornite: nei 5 comuni esistono vie e piazze con la stessa denominazione. Come verrà affrontato il problema? Varranno sempre i documenti di identità vecchi? Come ci si comporterà per quanto riguarda gli indirizzi di residenza?
In conclusione
Come si può fondare un nuovo ente bruciando le tappe, non coinvolgendo la propria gente e senza prima conoscere con esattezza pregi e difetti effettivi di una proposta?
I nostri piccoli comuni devono resistere, invece si vogliono cancellare con un atto di forza che doveva nascere e svilupparsi con ben altre modalità.
La crisi economica è lo spauracchio con cui si cancelleranno i piccoli comuni (sono quasi 6.000 in Italia, cioè i 3/4 del totale) facendoli fondere o spolpandoli finanziariamente. Invece di difendere l'ultimo baluardo che mette a contatto diretto la politica e la cittadinanza, ci si genuflette agli ordini del palazzo europeo (quelli di Roma sono di fatto relegati anch'essi a ruolo di semplici esecutori di scelte dall'alto), che non sa, non vede e non conosce le esigenze delle persone e delle comunità "piccole".
I problemi veri vanno ricercati e superati a livello internazionale, per questo bisognerebbe fare fronte comune dai nostri piccoli territori, che hanno affrontato il medioevo, il rinascimento, le divisioni nazionali, l'unità d'Italia, hanno superato indenni 2 guerre mondiali e che rischiano di morire perché la politica si è arresa agli attacchi della finanza speculativa.