opinioni

Sinistra e banchieri, connubio indissolubile

mercoledì 27 febbraio 2013
di Stefano Olimpieri, capogruppo Pdl

Mentre a parole, nei dibattiti politici e nelle trasmissioni televisive, gli esponenti del PD sono bravissimi nel fare grandi proclami in difesa del ceto medio, delle famiglie in difficoltà e delle piccole e medie imprese, nei fatti concreti la stessa sinistra è indissolubilmente legata ai grandi potentati economici e finanziari, alle banche e, soprattutto, ai banchieri. "Sputano" sentenze contro la finanziarizzazione dei mercati e lo strapotere della globalizzazione, ma poi siedono nei Consigli di Amministrazione, gestiscono i board dei grandi gruppi di potere, disegnano il puzzle delle aggregazioni bancarie e, nei fatti, contribuiscono fattivamente a decidere del futuro dei popoli e delle comunità attraverso una vera e propria sudditanza nei confronti dell'alta finanza. Se Clinton, al tempo del suo mandato da Presidente USA, aveva acceso il disco verde alla globalizzazione in nome della omologazione fondata sulla diffusione del progressismo mondiale (è stato Clinton a cancellare la divisione tra banche d'affari e banche di erogazione del credito, creando le condizioni per il via libera alla speculazione finanziaria generalizzata), in Italia i più importanti esponenti della sinistra "moderna" si sono immediatamente accodati: la svendita dei grandi colossi pubblici all'epoca di Romano Prodi (tra gli altri, le storiche Acciaierie di Terni), la privatizzazione della Telecom sotto il Governo D'Alema in favore di Colaninno, padre del giovane deputato PD, Matteo, ma soprattutto uno dei "capitani coraggiosi" dei primissimi anni duemila (a quel tempo Guido Rossi, noto economista di area liberal-progressista, affermava che "Palazzo Chigi è l'unica Merchant Bank dove non si parla inglese"), le grandi manovre della finanza "rossa" per l'acquisizione di BNL da parte di Unipol (per tutti basta ricordare la telefonata di Fassino a Consorte: "ma allora abbiamo una banca!") con un accordo che vedeva MPS come attore non defilato (Antonio Fazio, ex Direttore di Banca d'Italia, ha dichiarato che "vennero da me Fassino ed altri - anche Bersani? - a chiedere se si poteva fare una fusione Unipol-MPS-BNL"). Quello che sta emergendo dallo scandalo MPS può essere visto sotto profili diversi, tutti però legati all'indissolubile e perverso connubio tra i banchieri, le banche e la sinistra: dai numerosissimi contributi che alti manager MPS erogavano nelle casse dei DS prima e del PD dopo (il solo Mussari ha versato 683.000 in meno di dieci anni), alle nomine politiche che Comune e Provincia di Siena facevano all'interno della Fondazione; dalle operazioni di salvataggio "politico" di alcune banche di valenza territoriale, alla saldatura di interessi tra la finanza "rossa" e blocchi di potere legati alla Massoneria. Ma quello che è più sconcertante nel caso MPS riguarda la gestione dei derivati e della finanza creativa, tanto che dopo il miliardario acquisto di Antonveneta i vertici della banca hanno "scommesso" attraverso la sottoscrizione di derivati al fine di provare a spalmare nel futuro le pesantissime passività, oltre che per dimostrare agli organi di controllo che i conti erano in ordine (sic!). In buona sostanza, la banca più antica del mondo, grandissimo esempio dell'Italia più profonda, è in balia della finanza mondiale, e delle sue storture. La sinistra al caviale, sempre prona verso i poteri forti, si è messa a giocare al "piccolo capitalista", piazzando i propri amici all'interno del risiko dei vertici bancari, tanto da scambiare Piazza Salimbeni con Wall Street. In ossequio al sistema dell'occupazione del potere di gramsciana memoria, la sinistra ha smesso di occupare le fabbriche per difendere i lavoratori e si è specializzata nella occupazione dei CdA delle banche per costruire un sistema finanziario funzionale alla gestione del potere politico ed economico. Ai tempi della guerra fredda era la Pravda a dettare la linea, oggi gli sono gli editoriali del WSJ, del FT e dei grandi giornali del capitalismo italiano a impartire gli ordini: ai tempi della logica di Yalta i vertici del partito andavano a Mosca per farsi dare il compitino, oggi vanno alla City di Londra o presso i banchieri e tecnocrati di Bruxelles per obbedire alla finanza mondiale. Fare queste considerazioni apparirà politicamente scorretto ai grandi politologhi e agli illuminati "maìtre à penser" locali, ma forse potrebbe non essere del tutto lontano dalla realtà.