cultura

Una seconda vita per Salci

lunedì 11 maggio 2015
di Livia Di Schino
Una seconda vita per Salci

Tra Fabro e Città della Pieve, a cavallo tra tre province: Terni, Perugia e Siena. Un borgo silente, che nei tempi che furono ha accolto anche mille abitanti, che dai rigogliosi poderi si recavano in centro per sbrigare incombenze o passare un po’ di tempo tra compaesani. Perché, come tutti sanno, per conoscere le ultime notizie è necessario recarsi al bar: non per ascoltare quella scatola illuminata e parlante alla quale è stata persino dedicata un’intera sala, ma accompagnando quattro chiacchiere ad un buon bicchiere di vino. Poi, una sosta all’ufficio postale, davanti alle scuole elementari, in macelleria, dal falegname e dalla sarta. Anche se magari non serve proprio nulla e non ci sono neppure tanti soldi da spendere. Ma per non perdere il contatto con la propria comunità.

Quindi, periodicamente, c’era chi indossava le scarpe e andava in centro, per un mercato o per farsi ammirare in tutta la propria bellezza. Per farsi notare da chi, altrimenti, non si avrebbe avuto modo di conoscere. Una piccola sosta ristoratrice in piazza, con la scusa di guardare i più giovani giocare, per riuscire a incrociare un eloquente sguardo. Sorprendendosi di essere state accarezzate con lo sguardo negli stessi luoghi dove i propri genitori si erano scambiati per la prima volta una promessa d’amore e dove la propria nonna aveva concesso un disperato abbracciato al proprio uomo che stava partendo per la guerra. Amore, disperazione, speranze e rimpianti che si sono consumati su quelle piazze, lungo la sterrata strada principale e sotto il palazzo ducale, prima che fossero dimenticate dal tempo. Prima che Salci rimanesse un luogo affascinante e misterioso, nel quale sorprendersi ad ascoltare la storia che fu.

Raccontata da chi la conosce, da chi ha dedicato tanto tempo -nella continuità generazionale- a studi e approfondimenti. Un luogo che non può e non deve essere dimenticato perché rappresenta il proprio punto di partenza, le proprie origini, la storia della famiglia e di una comunità che ancora adesso, in molti casi, subisce l’affascinante orgoglio identitario. Forse, perché Salci ha dato natali ad alcuni personaggi illustri. Ma di questo tratterà Massimo Neri nel suo libro. Un “tuttologo dilettante”, come si definisce con modestia, che nella sua opera metterà insieme gli studi del padre, i suoi e gli stimoli delle figlie, che seppur giovani condividono questa passione.

Massimo Neri, anticipando alcuni dei contenuti del suo libro, mostra un’architettura articolata, dalla quale si evince la storia dell’abitato: da luogo fortificato tra la Porta di Orvieto e quella di Siena a prestigioso emblema di grandezza, da nido d’amore a mezzo di produzione.

Da borgo medievale, dopo il 1600, è stata la famiglia Bonelli a far rinascere Salci. Sono stati loro ad aggiungere una corte, restaurare la chiesa parrocchiale San Leonardo, edificare una torre dell’orologio poi abbattuta all’inizio del ‘900, erigere una nuova chiesa, quella di San Pio e il palazzo ducale. Proprio così, un palazzo ducale ad emblema del fatto che Salci fino al regno d’Italia è stato un ducato autonomo, con tanto di piccolo esercito.

Con la marchesa Vittoria Guerrieri Spinola, Salci divenne un sapiente nido d’amore. La marchesa, infatti, ci si trasferì con il suo amante, dove fuse conoscenza e romanticismo. Quindi, la realizzazione di un giardino esotico, con il bambù del Giappone e cavalli dalla Tunisia. Ma anche uno scialé, concepito come un villino in stile neogotico subalpino, che oggi rimane celato tra la selvaggia vegetazione.

Fu quindi, l’ingegner Paganini a riportare Salci a puro latifondo e quindi a una mera produzione agricola. Ma la storia di Salci, letta dai suoi edifici, non si esaurisce con l’impronta dei suoi possidenti. Tre sono le sedi, che si susseguono nel centro: quella del fascio, quella socialista e quella comunista. Come a ricordare che Salci non è rimasta estranea alle ideologie, ai pensieri politici. I più informati, raccontano di un corridoio che metteva in comunicazione le sedi dei compagni. Compagni che, nelle avversità, hanno visto un guareschiano don Camillo irriducibile, non di fronte ad un alluvione ma davanti a un progressivo spopolamento. E’ stato, infatti, don Pietro Calzoni a vedere uno dopo l’altro andarsene i suoi compaesani. Con la valigia in mano. Lui ha resistito ed è rimasto fino a quasi tutti gli anni ’90, continuando a trascorrere le proprie giornate in un luogo che, con pacatezza, conciliava il momento della preghiera con quello del lavoro, la riflessione con l’arte.

E proprio dall’arte Salci potrebbe trovare nuova linfa vitale. Restaurando la chiesa e il suo campanile, sarebbe possibile realizzare un museo permanente dei tempi che furono e organizzare mostre che permettano di far conoscere il luogo, valorizzandolo nella propria essenza. Ne è convito Massimo Neri, che vuole che Salci sia ricordato per quello che è stato ma in vista di una seconda possibilità. Di una nuova vita.

 

A questo link un viaggio virtuale a Salci, realizzato da Walter Moretti.

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