Giovanni Veronesi presenta "L'ultima ruota del carro". Giovani/futuro, commedia/vita.

La vita non è un film. Ma può anche diventarlo. È successo ad Ernesto Fioretti, l'autista di Carlo Verdone. Tappezziere, insieme al padre che gli aveva predetto un destino da ultima ruota del carro. Cuoco d'asilo, senza saper cucinare, dopo aver vinto un concorso truccato. Traslocatore e comparsa cinematografica. Con il cognome cambiato in "Marchetti" e il volto del brillante Elio Germano, sul grande schermo alla fine c'è finito da protagonista. O meglio, c'è finita la sua vita, fitta di aneddoti che attraversano l'Italia dagli anni '60 ad oggi.
Li ha ascoltati e trasformati in film, Giovanni Veronesi, erede moderno di quella commedia che oltreoceano definirono, quasi con senso di superiorità, "all'italiana" fatta di risate agrodolci, cialtronerie e bei valori. È così anche "L'ultima ruota del carro", il film che il regista toscano ha presentato mercoledì 30 luglio al Cinema Moderno di Bolsena dialogando con Aldo Forbice, nell'ambito della terza edizione della rassegna "CineCastello" che ha avuto il merito di spargere polvere di stelle sull'estate atipica dell'alta Tuscia.
Dall'esordio d'attore con Pupi Avati all'incontro con Mario Monicelli. Francesco Nuti, suo mentore, e Leonardo Pieraccioni, l'amico di una vita. Insieme a Massimo Ceccherini che "pochi sanno, ma possiede in casa una cineteca sorprendente e poetica, ed è una persona di rara delicatezza, scelta da Matteo Garrone per interpretare il marito di Alba Rohrwacher" nel film "Tale of Tales. Il racconto dei racconti", le cui riprese hanno interessato a metà giugno anche il vicino Bosco del Sasseto di Torre Alfina.
Fino alla presa di coscienza che "non ero Stanley Kubrick". "Non volevo fare l'attore – ha ammesso il regista, sua la fortunata trilogia dei manuali d'amore – ma volevo entrare in questo mondo. Ho impiegato un po' di tempo per capire cosa ero realmente in grado di fare e che tipo di regista fossi. Peter Pan? Sono epicureo, mi piace godere. Non stare lì ricurvo e triste come Leopardi. In questo momento di crisi economica, il cinema italiano è una forma artistica che costa denaro. Intorno, deve esserci un mercato che funziona. Oggi non è così. In America, un mese fa un giornalista mi ha detto che un diciottenne gli aveva spiegato che andare al cinema è da sfigati. Il film si vede sul tablet, a casa. Dopo averlo criticato in nome dell'ideale romantico del buio della sala cinematografica, ho capito che non c'è futuro se non facciamo uscire il film in tv in contemporanea con il cinema.
E' successo anche nel calcio. Dovremmo arrivare ad avere in prima serata a 12 euro – ammortizzati se di fronte allo schermo c'è una famiglia di 5 persone – il film che troviamo anche nelle sale dei cinema. Sono consapevole che questa idea attirerà le critiche degli esercenti. Ma la qualità dei televisori non è più quella di anni fa. Il cinema si può vedere anche a casa, risparmiando e ripristinando la storica serata-cinema del lunedì di Raiuno. La gente non vuole più andare al cinema, anche per i prezzi. I giovani non sono così romantici verso le chiusure delle sale di provincia. Al tempo stesso, la moda di fare film con 150.000 euro non crea buoni prodotti. I talenti ci sono, ma non vengono scoperti per mancanza di investimenti, al di là dell'assistenzialismo per le opere prime e seconde.
La commedia resta il genere sempre più gradito dal pubblico. Ma c'è un grosso equivoco. Non è comica, anche se fa ridere. Penso a 'Il sorpasso', 'La grande guerra'. Si ride, ma ci si commuove. È un genere difficile da fare perché è totale, come le sfumature della vita. Monicelli mi diceva 'La commedia è come la vita, bella e cattiva'. La racconti con la realtà, senza artifici e la gente ci si identifica. I film di Sorrentino sono come i libri di Eco o di Saviano. Tutti ne parlano, ma in pochi li conoscono. Io che difendo la scena della festa in terrazza che ne 'La grande bellezza' raduna gli ultimi vent'anni emblematici del paese, fatti di facce stravolte e decadenti, dove la politica si fa di notte, non nascondo di aver trovato, come tutti, il film estremamente lento. Garrone e Sorrentino se lo meritano di essere famosi all'estero. Le commedie sono dialettali e difficilmente esportabili.
Ne 'L'ultima ruota del carro' ho cucito come un buon sarto gli episodi che mi ha raccontato Ernesto. Ho solo posposto due avvenimenti per rendere più catartico il finale, ma è tutto vero. Accanto alle sfortune del protagonista, scorrono trent'anni di storia italiana. Non so se è il film migliore che ho realizzato. Mi piace, però, l'idea legata anche al cambiamento del produttore di averlo fatto per raccontare qualcosa al pubblico. Non un'opera esclusivamente commerciale, ma una riflessione. Adoro far ridere le persone. Alcuni monologhi recitati da Ricky Memphis sono estremamente divertenti.
Non resisto a non essere guitto. I critici non me lo perdonano, sono in lotta perenne con loro. Ma non ce la faccio ad essere arido nel darmi. Concepisco il cinema come arte popolare fruita da più gente possibile. I film vanno dati in pasto e non rimanere operazioni velleitarie. Le opere di Picasso non sono viste da 14, ma da milioni di persone. Nell'arte non c'è gavetta, l'età non c'entra quando si è pronti a donare la propria arte. Un attore può essere al massimo della sua espressione artistica anche 17 anni. Pensiamo a Marlon Brando, Leonardo Di Caprio, i Beatles. Si può essere artisti a qualsiasi età. Mio fratello Sandro ed io, scriviamo entrambi. Facciamo due percorsi diversi per arrivare al traguardo. Un ventenne vive anche pochi soldi. Sono i giorni prima del 27 del mese che danno dignità al lavoro. È che abbiamo tolto la speranza ai giovani, che non sentono la dignità stando in un paese-ampolla bellissimo come l'Italia, dove abbiamo insegnato che un giovane che studia, è uno che perde tempo". Di questo parlerà anche il film in lavorazione. Profetico, il titolo: "Non è un paese per giovani".

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